BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'


L’aroma del riso.
Claudio Della Volpe
Il riso viene prodotto in tutto il mondo in ragione di poco meno di mezzo miliardo di tonnellate all’anno, ed è il cibo più comune al mondo.
Eppure ditemi voi quanti hanno sentito parlare dell’aroma del riso; intendo qui da noi.
Noi italiani non siamo, dopo tutto, grandi consumatori di riso; fra i produttori l’Italia si trova al 31° posto al mondo, preceduta da altri paesi dell’Asia, dell’America Latina e dell’Africa, confermandosi però al primo posto assoluto in Europa: tra gli altri paesi europei compaiono in 39° posizione la Spagna e in 61° posizione la Grecia. Come consumatori invece siamo a 6kg/procapite (contro per esempio i quasi 30 di pasta); per capirci la media mondiale è rimasta stabile intorno ai 53.9 kg dal 2000, con picchi di oltre 100kg/pro capite in alcuni paesi del sud est asiatico.
Insomma importanti nel contesto europeo, ma piccoli sul piano mondiale; il che spiega perché dopo tutto parlare di aroma del riso non è banale, mentre ci crediamo grandi esperti per via della tradizione del risotto.
Questo post nasce come spesso accade da una esperienza familiare; mi alzo la mattina e sento un odore di pop-corn, provenire dalla cucina; mi avvicino speranzoso, ma trovo una pentolina ormai spenta con del riso nero integrale già cotto, che sta raffreddandosi; mia moglie, che è la cuoca di casa, per evitare il caldo cucina sul presto ed oggi ha deciso di fare una insalata di riso nero integrale, prodotto al 100% in Italia.
L’odore è quello del pop-corn ma la realtà è diversa.
La cosa mi incuriosisce dato non è la prima volta che lo sento, ma stavolta non demordo finche non trovo la ragione, che sta in un lavoro pubblicato ormai oltre 40 anni fa, ed è la molecolina qui sotto:

2-acetil-1-pirrolina o 2-AP
(ATTENZIONE: la pirrolina NON è un composto aromatico* come invece il pirrolo )
Fate caso al titolo del lavoro citato nelle note: “cooked rice”, non si tratta di un aroma del riso al naturale ma di un aroma del riso DOPO averlo cucinato, come dopo tutto succede col pop-corn.
L’anello pirrolinico rende il composto altamente instabile. È il principale composto aromatico e gustativo presente nel riso profumato e responsabile dell’aroma “popcorn” nei prodotti alimentari. Ha una soglia di odore molto bassa (0,1 μg kg-1 ) in acqua e di conseguenza può essere rilevato dal naso umano a concentrazioni molto basse.
Dopo la sua scoperta da parte di Buttery la 2-AP è stata ritrovata in un numero elevato di sistemi biologici sia piante che animali (è un feromone per la tigre!! ed è presente nell’urina del binturong), sia batteri che funghi; si trova in numerosi cibi cotti.

Binturong o gatto orsino.
La specie che lo contiene in maggiore quantità è la pianta Pandanus Amaryllifolius (nelle foglie fresche), originaria delle Molucche ed usata per fare cesti che possono essere usati per contenere e cuocere/aromatizzare il cibo ma anche per scacciare gli scarafaggi.
La via biosintetica è complessa ed è riportata qui sotto:

Come potete osservare l’ultima fase è una reazione non enzimatica.
Nel riso in particolare 2-AP non è presente in alta concentrazione, ma è presente a tassi anche decine di volte inferiori rispetto al Pandano fresco; dunque come mai si sente così bene il suo odore in fase di cottura?
La spiegazione risiederebbe nel processo cosiddetto di gelatinizzazione dell’amido del riso; e qua devo per forza cercare di sintetizzare.
L’amido è composto da due polisaccaridi principali, l’amilosio e l’amilopectina, che si presentano in granuli con una struttura cristallina.
Quando i granuli di amido vengono riscaldati in acqua, le molecole di acqua penetrano all’interno dei granuli, rompendo i legami tra le molecole di amido, causandone il rigonfiamento.
Il rigonfiamento porta alla perdita della struttura cristallina e alla formazione di una massa gelatinosa, dove l’amilosio e l’amilopectina formano legami con le molecole d’acqua.
La gelatinizzazione è un passaggio chiave nella cottura degli alimenti che contengono amido, come pasta, riso, patate e farine, e nella preparazione di prodotti da forno.
Al momento della gelatinizzazione tutti i composti contenuti nella massa e volatili vengono rilasciati; fra di essi si trova la 2-AP in quantità tale da essere recepito dai nostri sensi; questo spiega perché ce la troviamo letteralmente dentro al naso quando cuciniamo il riso nero (ma anche il basmati o altri risi aromatici che sono chiari). Nel caso del pop-corn la concentrazione originale è ancora più bassa, poche decine di microgrammi/kg, ma la temperatura di trattamento più alta.
Dunque così spieghiamo anche perché lo sentiamo nonostante sia presente in piccola quantità nel cibo originale.
In chiusura devo aggiungere una ulteriore strada di formazione della 2-AP legata alla cottura come tale.
È stato dimostrato che la 2-acetil-1-pirrolina si forma anche nella reazione di Maillard (le reazioni della cottura del cibo che portano al suo imbrunimento); può formarsi dalla reazione tra prolina (un amminoacido) e cosiddetti zuccheri riducenti/prodotti di degradazione degli zuccheri al riscaldamento
Ricordiamo infine che sebbene vi sia un elevato interesse commerciale per il 2-AP a causa dei suoi desiderabili attributi sensoriali, l’instabilità di questo composto (non è un composto aromatico e dunque non è stabilizzato dall’aromaticità) è un problema significativo per la sua applicazione commerciale. Il 2-AP puro diventa rosso e si degrada entro 10 minuti a temperatura ambiente e si verifica una significativa riduzione a breve termine della concentrazione di 2-AP nei prodotti alimentari, come i popcorn e il riso profumato crudo (quindi se volete sentire la sua presenza non aspettate che il riso raffreddi).
Consultati
https://scijournals.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/jsfa.7875 racconta la storia della 2-acetil-1-pirrolina
https://www.georgofili.info/contenuti/profumo-di-riso/4064
https://it.wikipedia.org/wiki/Pirrolina
https://en.wikipedia.org/wiki/2-Acetyl-1-pyrroline
Non ho potuto consultare il lavoro originale del 1982 Buttery RG, Ling LC and Juliano BO, 2-acetyl-1-pyrroline: An important aroma component of cooked rice. Chem Ind (London UK) 12:958–959 (1982) che mi è risultato citatissimo ma introvabile ed è ad esso che risale la scoperta del ruolo aromatico della 2-AP.
*Una nota finale per i non chimici; l’aromaticità NON è l’aroma ma l’esistenza di doppi-legami coniugati ossia alternati con legami singoli in un composto ad anello planare.
Situazione PFAS.
Claudio Della Volpe e Luigi Campanella
Facciamo il punto sulla situazione PFAS.
Anzitutto quanti composti organo-fluorurati esistono in natura?
Poco più di venti.
Invece gli uomini ne hanno sintetizzato oltre 20 milioni, dei quali oltre 7 sono definibili come PFAS a norma della definizione proposta dall’OECD nel 2023.
The Chemical Definition of PFASs according to OECD
PFASs are defined as fluorinated substances that contain at least one fully fluorinated methyl or methylene carbon atom (without any H/Cl/Br/I atom attached to it), i.e., with a few noted exceptions, any chemical with at least a perfluorinated methyl group (−CF3) or a perfluorinated methylene group (−CF2−) is a PFAS.
(traduzione: Definizione chimica dei PFAS secondo l’OCSE
I PFAS sono definiti come sostanze fluorurate che contengono almeno un atomo di carbonio metilico o metilenico completamente fluorurato (senza alcun atomo di H/Cl/Br/I attaccato ad esso), vale a dire, con alcune eccezioni, qualsiasi sostanza chimica con almeno un gruppo metilico perfluorurato (-CF3) o un gruppo metilenico perfluorurato (-CF2-) è un PFAS.
Al 1° luglio 2025, PubChem conteneva 119 milioni di composti chimici unici, di cui oltre 20milioni fluorurati e oltre 7 milioni rispondevano alla definizione OECD di PFAS.
Uno potrebbe chiedersi come mai questa abissale differenza fra la Natura e l’uomo?
La letteratura scientifica dà una risposta possibile, chiedendosi se questo numero così basso abbia una giustificazione chimica e rispondendosi di si.
E’ vero che il legame C-F è il legame organico singolo più forte, ma c’è una fortissima barriera di potenziale per la reazione di formazione del legame e dunque tale legame è poco favorito in qualunque catena reattiva. In un lavoro dedicato all’abbondanza presunta universale di tale legame gli autori scrivono:
Di conseguenza, il bilancio evolutivo complessivo costi-benefici dell’incorporazione del legame C-F nel repertorio chimico della vita non è favorevole. Noi sosteniamo che le limitazioni della chimica organo-fluorurata sono probabilmente universali, in quanto non si applicano esclusivamente a specifiche della biochimica terrestre. I legami C-F, quindi, saranno rari nella vita oltre la Terra, indipendentemente dalla sua composizione chimica
Queste le ragioni della scienza.
Ma quelle della chimica industriale dominante e del profitto a breve termine basato su una concezione privatistica delle cose, della Natura, della vita e di tutto sono diversi.
La scelta di introdurre anche il solo gruppo -CF3 o -CF2 ha vantaggi immediati notevoli poiché riduce il catabolismo e rinforza e prolunga la durata di azione delle molecole. Il gruppo CF3 è particolarmente idrofobico e stabile.

Abbondanze elementari tra i prodotti naturali (NP). Sono indicati il numero di prodotti naturali nel nostro database contenenti un determinato elemento e la percentuale. I composti contenenti gli atomi alogeni Cl- e Br sono quasi altrettanto comuni dei composti contenenti S tra i prodotti naturali. Al contrario degli alogeni Cl, Br e persino I, i composti naturali contenenti F sono gravemente sottorappresentati nel repertorio chimico della vita sulla Terra. La compilazione della figura mostra solo gli elementi che possono formare legami covalenti stabili in acqua. La compilazione esclude dall’analisi i metalli di transizione. (figura estratta dal lavoro sulla rarità dei composti fluorurati)
Esistono molte comuni molecole che sotto forma di farmaco, per esempio, sono però PFAS a tutti gli effetti. Ve ne facciamo una breve lista:
il prozac, Fluoxetina
il fluorochinolone, un antibiotico
il flurbiprofene, un comune FANS (antiinfiammatori non-steroidei)
la trifluridina/tipiracil (Lonsurf), un recente antitumorale
Desflurano, Sevoflurano, Isoflurano. tre anestetici inalatori
la Cilnidipina, un calcioantagonista usato come anti-ipertensivo.
Nel caso dei farmaci si potrebbe obiettare che molti di essi sono salvavita; e questo può essere; ma il criterio con cui i nuovi farmaci sono messi sul mercato indebolisce questo ragionamento; come racconta nel suo bel libro (Farmaci. Luci ed ombre) Silvio Garattini la logica del mercato farmaceutico NON è immettere nuovi farmaci SOLO se sono migliori degli esistenti, ma immettere nuovi farmaci se funzionano, consentendo a chi li inventa di godere del beneficio del brevetto e, tramite investimenti di vario tipo, spingerne il consumo. Ne segue che non sappiamo se quei farmaci che abbiamo elencato sono veramente il meglio dei loro settori; alcuni di essi sono importanti di sicuro (sul fluorochinolone ci abbiamo scritto un recente post); ma spesso potrebbero essere sostituiti senza colpo ferire.
Con il vantaggio di non immettere in natura molecole estremamente resistenti alla distruzione e che si accumulano nell’ambiente con effetti imprevedibili su di noi o su altre specie viventi (per esempio si vedano gli effetti ambientali della fluoxetina).
La questione tuttavia ha solo un aspetto etico perché al momento i farmaci (e i fitofarmaci), seppur PFAS ai sensi della definizione, non sono oggetto di restrizione (e quindi di discussione al momento in ECHA) perché hanno un iter autorizzativo autonomo.
Ancora peggiori sono le strategie di scelta delle nuove molecole nel caso di una molecola o un materiale usato in altri settori non della salute, come avviene nella maggior parte dei casi documentati di inquinamento, che ormai comprendono perfino l’acqua potabile.
A partire da questa strategia “privata” chiusa sul proprio ombelico, si è ormai stabilita una frattura all’interno dello stesso mondo scientifico.
Da una parte c’è chi vorrebbe che IUPAC desse una definizione propria di PFAS, dall’altra dato che quella esistente è già stata analizzata in ambito scientifico c’è un nutrito gruppo di colleghi che teme che questo sia solo una sorta di sotterfugio per aprire la strada a una situazione meno gestibile, meno chiara.
Dunque negli ultimi mesi abbiamo avuto prima una attività IUPAC a dicembre 2024 un congresso organizzato dal collega Metrangolo di Polimi denominato “1st IUPAC Workshop on PFAS Terminology“; e dall’altra la recente pubblicazione di un articolo firmato da ben 13 colleghi esperti del settore provenienti da tutto il mondo, che tramite la rivista dell’ACS Environmental Science & Technology Letters hanno rivolto un appello a NON cambiare le regole di denominazione, temendo appunto che qualunque cambiamento possa essere il prodromo di una situazione poco gestibile in questo delicato momento in cui a livello internazionale si discute di una strategia per far fronte ai pericoli ormai conclamati e riconosciuti da varie magistrature (i responsabili dell’inquinamento veneto di PFAS sono stati condannati in 1° grado pochi giorni fa) dell’uso disinvolto e pluridecennale di questi composti contro i quali non esistono a tuttoggi strategie di ricerca e di eliminazione completamente efficaci e ben fondate.

Per l’Italia ha partecipato al lavoro in qualità di autrice una delle personalità scientifiche più complete su questa vicenda, la collega Sara Maria Valsecchi dell’IRSA-CNR di Brugherio.
Riportiamo alcuni brani del lavoro.
I sottoscritti sono scienziati esperti in sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS) e/o nella gestione delle sostanze chimiche. Affermiamo che la definizione di PFAS dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) è scientificamente fondata, inequivocabile e adatta a identificare queste sostanze chimiche. Siamo preoccupati che alcuni individui e organizzazioni stiano cercando di ridefinire i PFAS approvati dall’Unione Internazionale di Chimica Pura e Applicata (IUPAC) per escludere alcuni sottogruppi chimici fluorurati dall’ambito della definizione esistente. Siamo preoccupati che questo sforzo sia politicamente e/o economicamente motivato, piuttosto che scientificamente. Una definizione di PFAS approvata dalla IUPAC e potenzialmente più ristretta potrebbe conferire un’indebita legittimità all’approvazione da parte di un’organizzazione scientifica globale riconosciuta e, in tal modo, influenzare gli organismi di regolamentazione e altri ad adottare politiche meno protettive.
…..
I PFAS sono definiti come sostanze fluorurate che contengono almeno un atomo di metile o di carbonio di metilene completamente fluorurato (senza alcun atomo di H/Cl/Br/I attaccato ad esso), vale a dire, con poche eccezioni note, qualsiasi sostanza chimica con almeno un gruppo metilico perfluorurato (-CF 3 ) o un gruppo metilenico perfluorurato (-CF 2 -) è un PFAS.
La definizione dell’OCSE è stata sviluppata per rispondere alle preoccupazioni secondo cui alcune sostanze contenenti frazioni completamente fluorurate erano escluse da una precedente definizione di PFAS sviluppata da Buck et al. (2) Tali sostanze comprendevano, ad esempio, gli acidi perfluoroalchildicarbossilici con gruppi acidi su ciascuna estremità della catena del carbonio perfluorurato e le sostanze con anelli aromatici e frazioni perfluoroalchiliche. La definizione dell’OCSE ha colmato questa lacuna ed è chimicamente inequivocabile e adatta per classificare le sostanze chimiche come PFAS.
…..
Gli organismi governativi e intergovernativi, nonché le altre parti interessate, dovrebbero continuare a utilizzare la definizione chimica univoca ed efficace di PFAS fornita dall’OCSE per identificare i PFAS. Si tratta di una questione separata su ciò che è e non è incluso dalle giurisdizioni per specifici scopi normativi o di elaborazione delle politiche, come raccomandato anche dall’OCSE. (1) Ad esempio, sebbene entrambi si basino sulla definizione dell’OCSE, l’attuale approccio canadese basato sui PFAS di gruppo (4) esclude i fluoropolimeri nella sua azione attuale, mentre la proposta di restrizione dei PFAS basata sui gruppi nell’UE include deroghe limitate nel tempo, ad esempio per gli usi nei prodotti medici, ed esclusioni del piccolo sottogruppo dei PFAS completamente mineralizzabili. (5) Analogamente, i pesticidi, i prodotti farmaceutici e i gas fluorurati sono stati regolamentati o gestiti separatamente dagli altri PFAS in molte giurisdizioni. Ciò non li esonera dal soddisfare la definizione chimica di PFAS.
……
L’introduzione di una definizione alternativa o concorrente di PFAS per l’identificazione generale dei PFAS che includa considerazioni che vadano oltre la struttura chimica è preoccupante. Può essere utilizzato da alcune parti con interessi acquisiti per influenzare le normative e, quindi, quali PFAS possono essere utilizzati, emessi e presenti nei prodotti e negli ambienti. Causerà inoltre una sostanziale ambiguità e confusione nelle discussioni internazionali e potrebbe portare a incongruenze giurisdizionali e contraddizioni non necessarie nelle normative e nell’azione in materia di PFAS. Ciò contrasterà l’auspicata armonizzazione tra le giurisdizioni che andrebbe a vantaggio di coloro che regolano, producono e/o utilizzano PFAS, nonché dell’esposizione umana e ambientale. Inoltre, poiché i metodi per monitorare la conformità e l’applicazione sono adattati alle normative, le modifiche alla definizione rallenteranno la continua standardizzazione dei metodi. ….
Riteniamo pertanto che la definizione univoca dell’OCSE debba costituire la base generale per una regolamentazione armonizzata. I responsabili politici possono prevedere esenzioni giustificate per scopi specifici senza modificare la definizione generale di ciò che costituisce un PFAS. Non ci sono prove che indichino che la definizione dell’OCSE sia errata o problematica e, quindi, non c’è bisogno di una nuova definizione di PFAS.
(i corsivi sono nostri)
Consultati:
https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0022113999002018 lavoro datato ma citatissimo sui composti naturali contenenti fluoro
https://www.nature.com/articles/s41598-024-66265-w le ragioni della rarità dei composti fluorurati sulla Terra e altrove
https://pubs.acs.org/doi/10.1021/acs.estlett.5c00478 il lavoro di Sara Valsecchi ed altri che chiede di non cambiare le regole di denominazione
https://www.isde.it/wp-content/uploads/2019/05/2019.04.09-Position-Paper-PFAS.pdf position paper ISDE sui PFAS; avremmo potuto farne uno anche noi come SCI, ma nonostante gli sforzi non ci siamo riusciti, peccato.
La cottura periodica: l’uovo perfetto!
di Nunzia Iaccarino*

Chi non ha mai provato a cuocere un uovo alla perfezione? Croce e delizia dei cuochi, amatoriali e professionisti, le uova sono ingredienti semplici solo in apparenza. C’è chi le preferisce alla coque, chi sode, chi ama la consistenza “cremosa” del tuorlo tipica della cottura a bassa temperatura. Ma c’è un problema cruciale che la scienza conosce bene: l’albume e il tuorlo richiedono temperature diverse per cuocere in modo ottimale. Fino ad oggi, questa differenza obbligava a scendere a compromessi sul risultato finale. Un recente studio condotto da un team di ricercatori dell’Università degli Studi di Napoli Federico II guidati da Ernesto Di Maio con Emilia Di Lorenzo del Dipartimento di Ingegneria Chimica, dei Materiali e della Produzione Industriale, Antonio Randazzo del Dipartimento di Farmacia e Pellegrino Musto dell’Istituto di Chimica e Tecnologia dei Polimeri (ICTP) CNR
ha però dimostrato che, con un approccio ingegneristico e una buona dose di modellazione matematica, è possibile cuocere l’uovo… in modo perfetto.
Cottura Periodica: l’uovo a due temperature senza romperlo
Il lavoro pubblicato su Communications Engineering [1], presenta una tecnica innovativa denominata Cottura Periodica. Il principio è tanto semplice quanto ingegnoso: cuocere l’uovo alternando brevi immersioni di 2 minuti in acqua calda (100 °C) e 2 minuti in acqua fredda (30 °C), per un totale di otto cicli, equivalenti a 32 minuti complessivi. Questo trattamento termico ciclico genera all’interno dell’uovo un profilo di temperatura controllato che consente di raggiungere circa 85 °C nell’albume, favorendone la coagulazione, e 65–67 °C nel tuorlo, la temperatura ideale per mantenerne la cremosità, senza la necessità di separare le due componenti.
L’idea prende ispirazione da processi di lavorazione dei materiali, dove condizioni variabili nel tempo vengono impiegate per modulare proprietà come la densità o la morfologia. Applicando questo concetto alla cucina, è stato simulato il trasferimento di calore nell’uovo mediante un programma di modellazione e simulazione matematica, con ottimi risultati: il profilo termico risultante è altamente controllato e predicibile.
La prova del cuoco… e dello spettrometro
Per validare la teoria, le uova sono state cucinate con quattro diverse tecniche: bollitura classica (12 minuti a 100 °C), cottura soft (6 minuti a 100 °C), sous vide (60 minuti a 65 °C) e cottura periodica (Figura 1).

Figura 1. Diverse modalità di cottura dell’uovo esplorate Copyright Communications Engineering.
I risultati sono stati analizzati con metodi avanzati: FT-IR per valutare il grado di denaturazione proteica, analisi sensoriale e della consistenza, 1H-NMR e spettrometria di massa ad alta risoluzione per il profilo nutrizionale.
I risultati permettono di stabilire che con la cottura periodica si ottiene un albume ben cotto e un tuorlo cremoso, bilanciando consistenza, sapore e valore nutrizionale. La cottura periodica ha preservato meglio alcune molecole bioattive, in particolare i polifenoli e gli amminoacidi essenziali (come la lisina e e gli altri amminoacidi a catena ramificata), che in altre modalità risultano degradati.
Dalla cucina al laboratorio… e ritorno
Oltre al fascino di poter cuocere un uovo “scientificamente perfetto”, questo studio mette in luce l’importanza della chimica e dell’ingegneria nei processi alimentari. La ricerca suggerisce che un controllo più fine delle condizioni termiche può avere ricadute non solo sul gusto, ma anche sulla qualità nutrizionale e la sicurezza alimentare. E non solo: la periodicità termica è un approccio applicabile anche in ambiti diversi dalla cucina, come la cristallizzazione, la polimerizzazione e la lavorazione di materiali.
In conclusione, questo lavoro, è un esempio brillante di come concetti avanzati possano trasformarsi in soluzioni pratiche per la risoluzione di problemi quotidiani. È anche un invito a guardare alle nostre cucine come laboratori chimici, dove ogni gesto, anche quello di bollire un uovo, può nascondere affascinanti complessità.
[1] Emilia Di Lorenzo, Francesca Romano, Lidia Ciriaco, Nunzia Iaccarino, Luana Izzo, Antonio Randazzo, Pellegrino Musto, Ernesto Di Maio Periodic cooking of eggs. Commun Eng 4, 5 (2025).https://www.nature.com/articles/s44172-024-00334-w
*Nunzia Iaccarino, laurea e PhD CTF a Napoli, dal 2021 è ricercatrice di chimica analitica presso il dipartimento di Farmacia dell’Università di Napoli. Si occupa di metabolomica mediante spettroscopia NMR e spettrometria massa.
L’allotropia dell’azoto come accumulatore di energia
Diego Tesauro
L’allotropia (dal greco άλλος altro, e τρόπος modo) è una caratteristica che indica la proprietà degli elementi chimici di esistere in diverse forme per caratteristiche fisiche (colore, sistema di cristallizzazione) o anche chimiche (reattività) causate specificamente dalla struttura del legame chimico esistente fra gli atomi dell’elemento. Il termine è stato utilizzato per la prima volta dal chimico svedese Jöns Jacob Berzelius. La rilevanza di questa proprietà, forse unico caso, ha permesso di estendere il termine dalla chimica alla linguistica, per cui Il termine allotropi indica due o più parole che, pur essendo diverse nel significato sul piano formale e semantico, hanno il medesimo etimo.
Quasi tutti gli elementi chimici presentano diverse forme allotropiche. Quelle da tutti conosciute sono le due forme allotropiche del carbonio sulla Terra a cui si affiancano quelle dello zolfo. Altri elementi, non presentandosi allo stato nativo in natura, possono generare allotropie in funzione delle condizioni di pressione e temperatura nelle quali vengono ottenuti.
A parità di valenza, gli elementi, appartenenti allo stesso gruppo della tavola periodica, tendono ad avere la stessa forma allotropica come nel caso del IV gruppo C, Si, Ge e Sn hanno in comune la geometria tetraedrica a forma cubica. Questo non si verifica in toto nel V gruppo in quanto l’azoto si distacca dagli altri elementi del gruppo. L’azoto rispetto al carbonio, ha un elettrone di valenza in più. Ciò significa che l’azoto elementare non può formare quattro legami tetraedrici come quelli del diamante, in quanto per la teoria del legame di valenza (VBT) ha solo tre orbitali occupati da un solo elettrone e un quarto con una coppia solitaria, pertanto di non legame. Quindi l’azoto forma forti legami π, ma legami singoli relativamente deboli a causa della sfavorevole repulsione fra le coppie solitarie. Questa caratteristica fa sì che l’azoto sia l’unico elemento del gruppo V in grado di assumere forma biatomica. Tutti gli altri elementi del gruppo V (P, As, Sb e Bi) hanno una scarsa tendenza a formare legame multipli forti a causa della scarsa sovrapposizione degli orbitali p (notoriamente di dimensioni maggiori a partire dal 3° periodo) coinvolti nella formazione degli orbitali π. Pertanto dal fosforo in poi sono favorite sempre strutture estese con legami singoli, varianti della struttura cubica semplice per cui si formano in diverse forme allotropiche simili fra loro. La forza del triplo legame della molecola di azoto fa sì che altre forme allotropiche siano difficili da ottenere, ma sarebbero di grande interesse riprodurle come molecole di alta densità energetica.
I materiali ad alta densità energetica (HEDM) sono una classe di materiali che ha trovato enormi applicazioni nell’accumulo di energia, negli esplosivi e nei propellenti. L’efficienza di questi materiali è strettamente correlata ad alcuni fattori importanti come l’elevata densità, l’elevata energia di dissociazione dei legami. La quantità di energia rilasciata dipende dal calore di formazione e dal grado endotermico dell’HEDM. Tuttavia, esiste sempre un compromesso tra la densità energetica e la stabilità del composto, poiché quest’ultima generalmente diminuisce con il grado endotermico, che misura l’assorbimento di energia termica dell’HEDM a determinate temperature. La ricerca di nuovi HEDM ha ricevuto notevole attenzione per anni a causa delle potenziali applicazioni nell’ingegneria della potenza a impulsi, nell’elettrofisica ad alta tensione e ad alta potenza, nei materiali di saldatura e nella protezione dagli urti dei veicoli spaziali.
Gli allotropi dell’azoto molecolare, oltre la molecola biatomica N2, sono promettenti per lo sviluppo di materiali ad alta densità energetica per lo stoccaggio di energia pulita grazie al loro elevato contenuto energetico, maggiore rispetto all’idrogeno, all’ammoniaca o all’idrazina, di uso comune, e perché rilasciano solo azoto a seguito della decomposizione e pertanto dal punto di vista ambientale compatibili. Tuttavia, sono considerati estremamente instabili, specialmente quando hanno cariche ed un numero pari di elettroni. Di conseguenza, fino a quest’anno bisogna segnalare solo due esempi. Il radicale azido (•N3) è stato identificato in fase gassosa attraverso spettroscopia rotazionale nel 1956. Nel 2002, la molecola N4 è stata rilevata mediante spettrometria di massa per neutralizzazione-reionizzazione in fase gassosa; ma la sua struttura non è stata dimostrata. L’intermedio di una specie N6 è stato invece suggerito nel 1970 nel decadimento dei radicali azidi in soluzione acquosa ma non sono state fornite prove spettroscopiche definitive (Figura 1a).
Quindi restava in piedi una sostanziale sfida sintetica non essendo stato isolato nessun allotropo molecolare neutro dell’azoto. La preparazione di un allotropo molecolare metastabile dell’azoto, oltre la molecola biatomica N2, è quindi di notevole interesse.
Recentemente la sfida è stata raccolta [1] ed è stato preparato a temperatura ambiente del N6 molecolare (esazoto) attraverso la reazione in fase gassosa di cloro o bromo con azide d’argento, seguita dall’intrappolamento in matrici di argon a 10 K [Figura b]. L’N6 puro è stato ottenuto come un film alla temperatura dell’azoto liquido (77 K), dimostrando ulteriormente la sua stabilità. La spettroscopia infrarossa ed ultravioletta–visibile (UV-Vis), la marcatura con isotopi di 15N e i calcoli ab initio supportano l’effettivo ottenimento di questo allotropo.

Figura a Le tappe dello studio degli allotropi di azoto b Le reazioni di sintesi dell’allotropo N6. Copyright Nature
Ora sforzi futuri sugli allotropi dell’azoto neutro dovrebbero concentrarsi sul superamento delle sfide legate alla sintesi, sul miglioramento della stabilità termica, sulla possibilità di una caratterizzazione strutturale affidabile e sul raggiungimento di un rilascio di energia più completo, tutti elementi essenziali per le applicazioni pratiche. Inoltre in futuro si spera di ottenere l’allotropo dell’azoto neutro N10.
Anche se la scoperta è rilevante c’è comunque scetticismo per le applicazioni di accumulo di energia. Inoltre pur essendo N6 stabile nell’azoto liquido per lunghi periodi, come può rilasciare energia in modo controllato?
[1] W. Qian et al. Nature 2025, 642, 356–360. https://doi.org/10.1038/s41586-025-09032-9.
Pompieri e PFAS
Luigi Campanella, già Presidente SCI
La divisa di un vigile del fuoco è costituita da diversi strati per difendere il suo corpo dal fuoco contro cui dovrà combattere, dalle sostanze nocive con cui venissero a contatto, anche dai fumi. Di fatto resta esposto solo il viso che viene coperto da maschere filtranti solo se l’intervento lo richiede. Per essere efficaci e svolgere il loro ruolo protettivo, i completi anti-fiamma devono essere costruiti con materiali resistenti al fuoco, e quelli in dotazione al Corpo nazionale dei vigili del fuoco (C.N.VV.F) contengono il Politetrafluoroetilene (Ptfe), più conosciuto come Teflon, e altri Pfas, le sostanze perfluoralchiliche note soprattutto per essere responsabili di una delle più grandi contaminazioni ambientali italiane, avvenuta in provincia di Vicenza a opera dell’azienda Miteni e di patologie tumorali diverse. Negli Stati Uniti è stata dimostrata la correlazione tra l’esposizione ai Pfas tramite i Dpi e alcune malattie che colpiscono i pompieri, in Italia un’indagine epidemiologica
IrpiMedia ha fatto analizzare un giaccone anti-fiamma di un pompiere italiano e la concentrazione di Pfas rilevata induce a considerare opportune indagini più approfondite su tale indumento.
Il Teflon, fino a qualche anno fa conteneva Pfoa, un Pfas considerato cancerogeno e vietato dal 2013 a causa della sua pericolosità per l’uomo. È noto soprattutto per essere contenuto nelle padelle antiaderenti; si tratta di un composto che non fa propagare le fiamme, permette ai tessuti di resistere a temperature elevate, è idro e olio repellente, quindi ideale per le tute da intervento dei vigili del fuoco. Il prolungato tempo di indossamento delle tute antifiamma ed il calore dovuto alle alte temperature durante gli incendi potrebbero però aumentare la capacità del corpo umano di assorbire Pfas. IrpiMedia ha consultato diversi capitolati del Ministero dell’Interno, scoprendo che a partire dal 2010 è specificato che la membrana esterna al giaccone e al pantalone deve essere composta da Politetrafluoroetilene (Ptfe) a struttura microporosa espansa e che sulla parte interna delle cuciture esterne deve essere applicato un nastro Ptfe idoneo ad assicurare una perfetta aderenza». Alcuni pompieri hanno scoperto le loro patologie grazie ai controlli sanitari, emocromo, spirometria, misura della vista, elettrocardiogramma, consulto psicologico a cui devono sottoporsi ogni due anni. IrpiMedia ha inviato una giacca da pompiere italiano negli Stati Uniti al professor Graham Peaslee che per primo aveva studiato la correlazione causa effetto nel caso delle patologie riscontrate nei pompieri e che si era offerto di condurre l’analisi e la misurazione della quantità totale di fluoropolimeri presenti nel giaccone italiano. La sua risposta è stata: “i tessuti costruiti con fluoropolimeri presentano un valore di fluoro totale di circa 50.000 ppm (parti per milione) o superiore, ciò equivale a circa il 5% di fluoro sulla superficie. La barriera anti umidità interna dei dispositivi di protezione è in genere realizzata in Ptfe che, quando viene misurato, restituisce concentrazioni di fluoro totale superiori al 20-30%. I vostri ricambi italiani sembravano avere valori di fluoro totale identici a quelli misurati negli Stati Uniti e in Australia».
Secondo queste dichiarazioni, le tute italiane potrebbero quindi contenere diversi tipi di Pfas, come le tute statunitensi e australiane che, secondo Peaslee, possiedono una quantità di Pfoa pari a 2,18 ng/g. marzo 2024.

A seguito di ciò il Conapo, il sindacato autonomo dei Vigili del Fuoco e l’USB hanno richiesto al Ministro dell’Interno e a quello della Salute, studi sull’incidenza dei Pfas nel Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco e accertamenti sanitari sui vigili esposti a queste sostanze.
Il ministero dell’Interno ha dato la stessa risposta del 2021, ovvero che le analisi da loro visionate, realizzate da un laboratorio accreditato, hanno fornito “valori non significativi dal punto di vista della misura”. Per il Ministero, dunque, le tute utilizzate dai pompieri italiani, non presentano quantità pericolose di Pfas.
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