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BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'

Syndicate content La Chimica e la Società
Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
Updated: 9 hours 18 min ago

Cosa sono le batterie di Carnot?

2 June, 2025 - 14:38

Claudio Della Volpe

Ho più volte affermato e continuerò a ripeterlo che la transizione energetica necessaria per affrontare uno dei nostri problemi principali (ne abbiamo almeno 9, come si sa) non può limitarsi ad aumentare le nostre apparecchiature di conversione rinnovabile (FV ed eolico ed altre simili) ma deve considerare la variabilità sistemica di tali fonti con due strategie chiave; una di lungo periodo che consiste nella costruzione di una grande rete elettrica mondiale di scambio, che consenta alla Terra di essere alimentata da un continente all’altro come immaginato già nel 1938 da Buckminster Fuller e sul breve periodo, nell’attesa di tale rete, tramite lo sviluppo di una serie di accumuli energetici che consentano di far fronte alla variabilità giornaliera e stagionale delle rinnovabili.

Il primo obiettivo ha molti aspetti politici e dunque non può essere al momento realizzato non per limiti tecnici, ma per limiti politici; sarà risolto (ne sono convinto pienamente) con la affermazione di una società umana UNITA, ragionevolmente a carattere socialista (non vedo alternative ragionevoli); il secondo invece ha notevoli limiti tecnici in quanto non abbiamo ancora messo a punto una filiera produttiva adeguata.

Tuttavia su questo tema la ricerca è attiva e produce passi avanti.

Oggi vi parlo di un aspetto di questa ricerca: le batterie di Carnot.

Si tratta di un concetto per certi aspetti innovativo, per altri invece ben conosciuto e sul quale sono in corso vari grandi progetti.

In particolare è stato pubblicato un report nel 2023 ad opera della IEA, intitolato Task 36 – Final Report che potete trovare qui.

Al lavoro hanno partecipato ricercatori di molti paesi; in particolare il gruppo che ha definito cosa sia una batteria di Carnot era diretto dall’italiano Salvatore Vasta, CNR ITAE di Messina.

Vediamo cosa scrive questo sottogruppo:

Questa definizione può essere apprezzata meglio tramite questo grafico:

La definizione di batteria di Carnot è stata coniata nel 2018 , ma in realtà l’idea base è nata molto prima addirittura nel 1833 da John Ericsson, riscoperta  un secolo dopo e brevettata da Laguerre (1936).

L’idea base è semplice, accumulare calore come risultato della produzione di energia elettrica da rinnovabili (trasformazione che come sapete ha una efficienza praticamente del 100% e poi dopo ore, settimane o nel caso migliore mesi recuperare quel calore come sorgente calda di una macchina termica con uno dei cicli tradizionali delegati a questo scopo (Brayton il ciclo ottimale per le turbine oppure Rankine, un ciclo classico che usa acqua come fluido).

Due parole sui metodi: in cosa accumulare calore?

In un fluido ad alta capacità termica, tipicamente acqua, o in un liquido a più alta temperatura, per esempio una miscela di sali fusi, oppure in un fluido che vada soggetto ad una trasformazione di fase, ed infine un processo termochimico che immagazzini l’energia nella forma chimica scelta; esistono ovviamente anche altre possibilità, ma queste sono le principali. Il metodo di trasformazione dell’energia elettrica in calore può avere perfino una efficienza più alta del 100% se si usa una pompa di calore alimentata dalla sorgente rinnovabile per pompare calore in un deposito opportuno a partire da una sorgente di stoccaggio naturale se disponibile (una termale ad esempio), oppure ci si può accontentare di un metodo come la resistenza elettrica che comunque arriva quasi al 100%.

La stima delle caratteristiche di questi sistemi deve rispondere ovviamente a due requisiti: alta densità energetica per unità di volume per abbassare il volume di accumulo necessario e possibilità di isolare il serbatoio riducendone le inevitabili perdite.

Lo scopo è sempre quello complessivo di massimizzare la cosiddetta efficienza di ciclo, roundtrip efficiency in inglese, e ancora la cosiddetta efficienza di seconda legge, che non esprime solo il rapporto fra le energie accumulate e fornite, ma tiene anche conto della qualità dell’energia.

Per fare questo si introduce il concetto di exergia, ossia una cosa introdotta per bypassare l’introduzione della sempre misteriosa entropia:

In termodinamica l’exergia di un sistema è la massima frazione di energia di prima specie (meccanica, elettrica, potenziale, cinetica, elettromagnetica, chimica) che può essere convertita in lavoro meccanico mediante macchina reversibile.

Terminerei questo post con due considerazioni; la prima è quella di come si stima l’efficienza REALE di una macchina termica e la seconda un caso concreto di batteria di Carnot.

Come noto il ciclo di Carnot (costituito da due isoterme e due adiabatiche) è il ciclo termodinamico che assicura il maggiore rendimento possibile in sede ideale tra le due temperature estreme del ciclo. Il rendimento sarà:

Nel 1873 Reitlinger dimostrò che tutte le macchine operanti nel medesimo intervallo di temperature e funzionanti con cicli costituiti da due isoterme e da altre due trasformazioni omologhe rigenerative sono in grado di realizzare il medesimo rendimento del ciclo di Carnot.
Assumendo quindi un ciclo con due trasformazioni isoterme alla massima e alla minima temperatura realizzando le altre due trasformazioni mediante isocore, politropiche o isobare rigenerative si otterrà il rendimento massimo ideale.
Se si operano due isobare si avrà il ciclo di Ericsson (1853), con due isocore il ciclo di Stirling (1816), con due politropiche il ciclo di Reitlinger (1873).

Ora si tenga presente prima di proseguire che il rendimento ideale è solo il massimo ottenibile in modalità “reversibile”, che è una modalità in cui il tempo non conta nulla, è infinito, si parla di energia MA non di potenza, una macchina che lavorasse reversibilmente fornirebbe energia in modo estremamente efficiente ma a potenza nulla!!

E cosa ce ne faremmo?

Una macchina per fornire potenza e non solo energia DEVE dissipare calore.

Le cose reali sono distanti dalla reversibilità e le macchine termiche reali forniscono potenza finita. Esiste una branca che però i chimici non insegnano, (a volte lo fanno sia pur raramente gli ingegneri) che è denominata “termodinamica a tempo finito”, in cui il tempo viene introdotto e la dissipazione accettata; se si lavora con coefficienti lineari di trasmissione del calore e si cerca la massima potenza si arriva ad un principio molto elegante, il principio di Curzon e Ahlborn; l’efficienza massima reale di una macchina termica è

Dunque questo è un caso perfetto per usare il concetto di termodinamica a tempo finito e conseguentemente la stima di Courzon e Ahlborn.

Qui sotto invece lo schema usato da uno dei tentativi di usare una batteria di Carnot efficace usando come accumulo una miscela di sali.

HITEC® è un sale per il trasferimento di calore registrato da Coastal Chemical che fornisce un mezzo di trasferimento di calore economico ed efficiente tra il vapore e il riscaldamento diretto. HITEC® appena preparato è un solido granulare bianco; una volta fuso, è di colore giallo pallido. HITEC® è una miscela eutettica di sali inorganici solubili in acqua di nitrato di potassio, nitrito di sodio e nitrato di sodio. È un mezzo di trasferimento del calore per il riscaldamento e il raffreddamento tra 300-1100°F (149-593°C), utilizzato nelle operazioni di processo, come il mantenimento della temperatura del reattore, la distillazione ad alta temperatura, il preriscaldamento del reagente e lo stampaggio rotazionale.

Quali sono le performances attese?

Carica. Il sale liquido stoccato nel serbatoio freddo a circa 250°C (482°F) viene pompato attraverso un riscaldatore elettrico che lo riscalda a 427°C (800°F) per essere stoccato nel serbatoio caldo. A questa temperatura, l’acciaio al carbonio a basso costo è adatto per i recipienti e le tubazioni.

Stoccaggio. Il sale è conservato in serbatoi di stoccaggio isolati, con perdite di calore tipicamente inferiori a 1°C al giorno. Questo tipo di serbatoio è stato utilizzato per decenni dall’industria dell’energia solare a concentrazione (CSP) negli Stati Uniti, in Spagna e in Nord Africa.

L’LSCC (Liquid Salt Combined Cycle) utilizza in genere un sale eutettico a basso punto di congelamento (142°C/288°F), come il sale Hitec®, per fornire mesi di standby senza il rischio di congelamento nei serbatoi. In questo modo si riduce anche la necessità di utilizzare il tracciamento del calore su tubazioni e valvole.

Dal punto di vista pratico un tale tipo di impianto assicura decine di MW per una intera giornata, dunque siamo in un intervallo al confine fra accumuli di lungo e breve termine ma tutto con tecnologie già esistenti e con efficienze di roundtrip che vanno dal 60 al 100%.

Insomma le batterie di Carnot sono un metodo di accumulo da considerare con grande attenzione.

Liquid Salt Combined Cycle

Da consultare:

  1. Marguerre, F. Thermodynamic Energy Storage. U.S. Patent US2065974A, 29 December 1936.

Imballaggi.

27 May, 2025 - 08:38

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Ricordo sempre con grande interesse ed un po’di nostalgia un progetto scientifico sul packaging alimentare a cui lavoravo da giovane e dedicato al controllo del rilascio da parte dei contenitori di composti che potevano danneggiare l’alimento contenuto rendendolo nocivo al consumatore. Una grande realtà industriale del tempo aveva supportato una mia idea, dotare le scatole di carne di un elettrodo sensore capace di individuare la variata composizione dell’alimento a seguito del rilascio dal contenitore.

La ricerca si concentrò sulla ottimizzazione del materiale del contenitore ai fini del non rilascio entro limiti temporali fissati dalla strategia industriale e sulla scelta del migliore elettrodo sensore. La ricerca andò avanti e poi si fermò per le difficoltà ad ottenere risultati che potessero sostenere da parte dell’industria il cambio delle tradizionali scatolette del tempo. Da allora molto tempo è trascorso ed il packaging alimentare è divenuto un tema prioritario.

L’attenzione crescente del settore dei materiali per l’imballaggio alimentare è in continua evoluzione per affrontare e rispondere alle nuove sfide della società. I consumatori richiedono sempre più alimenti di qualità superiore e più sicuri. Inoltre, negli ultimi anni, si è sviluppata la preoccupazione per l’impatto negativo sull’ambiente dovuto alla non biodegradabilità delle plastiche convenzionali. Soddisfare tutte queste esigenze richiede lo sviluppo di materiali nuovi, sicuri e sostenibili. Pertanto, in linea con la recente “Strategia dal produttore al consumatore” pubblicata dalla Commissione Europea in materia di imballaggi alimentari, si prevede la revisione della legislazione vigente “per migliorare la sicurezza alimentare e la salute pubblica, in particolare riducendo l’uso di sostanze chimiche pericolose” e sostenere l’uso di soluzioni di imballaggio innovative e sostenibili che utilizzino materiali ecocompatibili.

Queste azioni sono necessarie per raggiungere l’obiettivo della strategia di “creare un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente“, come parte centrale del Green Deal europeo (Commissione Europea, 2020 ). I materiali di origine biologica e/o biodegradabili vengono promossi come sostituti dei materiali a base di petrolio per applicazioni di imballaggio alimentare. La loro sicurezza deve essere valutata poiché componenti del materiale possono essere rilasciati negli alimenti e potrebbero avere un impatto negativo sulla salute dei consumatori.

L’identificazione delle sostanze chimiche che migrano dai materiali di imballaggio è un compito estremamente difficile, poiché solitamente la composizione chimica delle formulazioni utilizzate nella produzione di questi materiali non è completamente nota. Inoltre, composti sconosciuti come prodotti di degradazione, impurità, prodotti di reazione, ecc. possono essere presenti anche nel prodotto finale e migrare nell’alimento, con conseguente esposizione dei consumatori.

Per affrontare questo compito impegnativo, si stanno applicando metodologie non mirate che utilizzano la spettrometria di massa ad alta risoluzione.

L’IoT (Internet of Things) sta rivoluzionando la produzione e distribuzione dei prodotti, aprendo la strada a un futuro sempre più connesso – industria del packaging inclusa – con vendite globali stimate per 2,5 miliardi di dollari entro il 2025. Quando un grado avanzato di tecnologia viene applicato al packaging, si è soliti parlare di “smart packaging” o imballaggio intelligente. Con questo termine ci si riferisce a quei sistemi di confezionamento caratterizzati da funzioni e servizi evoluti che superano il semplice scopo di contenere dei prodotti. Si tratta di vere e proprie soluzioni tecnologiche, che rendono il packaging più attivo e in grado di dialogare con l’ambiente per essere sempre più efficiente per produttori e consumatori.

Il concetto di imballaggio intelligente deriva da quello più ampio di “functional packaging”, che viene trattato a livello europeo nel Regolamento CE 450 / 2009. Questo tipo di soluzioni viene classificato in tre diverse macrocategorie:

Imballaggi attivi: dotati di materiali tecnologici che interagiscono con il prodotto e intervengono in modo diretto su fattori come luce, ossigeno e umidità, a favore della qualità di prodotti e della loro durabilità;

Imballaggi intelligenti: capaci di comunicare grazie ad indicatori e sensori posti all’interno o all’esterno della confezione per fornire informazioni e dettagli sullo stato del prodotto;

Imballaggi connessi: integrano tecnologie come codici QR o tag RFID, che consentono di interagire con il prodotto, migliorando notevolmente l’esperienza di utilizzo da parte del consumatore.

Nell’elaborazione dei sistemi attivi vengono utilizzati materiali nuovi e sostenibili. Le ultime tendenze nella tecnologia del packaging attivo riguardano lo sviluppo di nanomateriali con proprietà migliorate, l’applicazione della nanotecnologia per l’incapsulamento di principi attivi e lo sviluppo di nanosistemi come vettori di composti bioattivi.

Memorie olfattive.

22 May, 2025 - 16:18

Mauro Icardi

James Herriot, veterinario britannico, nel suo libro “Cose sagge e meravigliose”, ricorda la sua prima sera nella caserma della RAF dove si era arruolato volontario durante la seconda guerra mondiale.

“Dopo quella prima giornata tumultuosa, mi chiusi in uno dei bagni piastrellati in verde e mi insaponai con una saponetta nuova, d’una marca famosa, messa nella mia valigia da Helen. In seguito non mi è più stato possibile servirmi di quel sapone. I profumi sono troppo evocativi e un solo lieve effluvio di quello di cui parlo è sufficiente per riportarmi all’improvviso alla prima notte lontano da mia moglie e allo stato d’animo di allora. Una sofferenza sorda e vuota che non si è mai dileguata del tutto.”(J. Herriot in Cose sagge e meravigliose, p 9)

Che un particolare profumo o odore sia evocativo di ricordi, è esperienza credo comune a molti.

Profumo e odore sono sinonimi solo dal punto di vista grammaticale. In realtà il primo  si utilizza con accezione positiva. Il secondo oltre ad essere il riconoscimento di una certa molecola da parte dei nostri chemiocettori nasali, spesso assume una connotazione ambivalente. Io ad esempio apprezzo l’odore dei tartufi, ma molte persone lo definiscono nauseante.

Sono nipote di cercatori del pregiato fungo sotterraneo, e quindi l’aroma che emana per me è  certamente piacevole ed evocativo.

Perché i tartufi hanno un aroma e da dove deriva?

I tartufi sono funghi sotterranei con i corpi fruttiferi sotto la superficie del suolo, il che impedisce loro di disperdere le spore attraverso l’aria e il vento. Per questo hanno sviluppato aromi per attirare animali che mangiano i corpi fruttiferi e successivamente attraverso le loro feci disperdono le spore diffondendo il tartufo in nuovi ambienti.

Indubbiamente i tartufi emanano molecole odorifere che sono il risultato di una lunghissima selezione naturale. Molto meno nota è l’origine di questi aromi e come questi sono più o meno diversi secondo i luoghi nei quali i tartufi della stessa specie botanica sono cresciuti.

La flora microbica che si trova nei tartufi è differenziata e composta soprattutto da batteri e secondo recenti ricerche l’aroma più diffuso nei tartufi, il dimetilsolfuro, è di origine mista fungina (tartufo) e batterica.

I mammiferi, dei quali l’uomo fa parte, localizzano i tartufi principalmente con l’aroma del dimetilsolfuro.

Ad oggi, il numero di sostanze volatili identificate in varie specie di tartufi è di circa duecento e solo una piccola parte di questi sono responsabili di ciò che gli esseri umani percepiscono come l’odore del tartufo.

Ma i miei ricordi olfattivi non si fermano qui. Durante i miei soggiorni estivi nel Monferrato c’erano altri odori e profumi che mi attiravano e incuriosivano.

Durante il conferimento delle uve alla cantina sociale,  l’odore di mosto si spandeva nell’aria.

Da bambino rimanevo incantato a osservare la fila di trattori ( e anche di qualche ormai raro tiro di una coppia di buoi), che trainavano i carri carichi di grappoli, spesso ancora con le ruote in legno, e attendevano il turno per lo scarico dell’uva.

Anche nel mosto il campionario delle molecole è vario: acqua, zuccheri, acidi, sali minerali, sostanze azotate, polifenoli, sostanze pectiche, vitamine, residui della pigiatura e lieviti. L’addestramento olfattivo che Primo Levi incoraggiava si è sviluppato in me probabilmente in quegli anni. E conseguentemente ha stimolato la voglia di sapere di più. Essermi avvicinato alla chimica nasce anche da queste ormai remote esperienze sensoriali.

Si ritiene che gli esseri umani riescano a percepire circa 10 000 odori differenti, ma l’olfatto non è il più sviluppato dei nostri sensi,  ed effettivamente molti animali riescono a superarci con le loro capacità olfattive. Eppure oltre alla passione per la depurazione, io ho lasciato il settore dei prodotti vernicianti anche per la difficoltà a sopportare l’odore delle vernici. Non posso certo paragonarmi al protagonista del romanzo di Patrick Suskind “Il profumo”, di Jean-Baptiste Grenouille, dotato di un olfatto sovrumano.

Ma ancora oggi mi piace addestrare l’olfatto e percepisco con piacere alcuni odori. In particolare quelli delle cotture di birra della famosa Birreria liberty di Induno Olona, quando passo nelle vicinanze dello stabilimento. Gli aromi di alcune piante, in particolare quello del genepì e della lavanda, mi ricordano immediatamente le estati dell’altro mio luogo del cuore, la Val Chisone e le escursioni in montagna.

Un cespuglio di genepì (Artemisia), Alpi Orobie.

Avere una propensione per i profumi e gli odori mi è anche servito nel mio lavoro. Le lamentele per le molestie olfattive non sono rare quando si lavora nel settore della depurazione, e in qualche caso si è potuto dimostrare l’estraneità dell’impianto a questi fenomeni. Specialmente nei periodi di concimazione dei campi, quando il dito ci veniva puntato contro mentre non eravamo noi i responsabili dei cattivi odori.

“Mi lasciò in mano un cartoccio con dentro un buon mezzo chilo di zucchero, disse che sarebbe tornato l’indomani, salutò e se ne andò: non prese l’ascensore, scese tranquillamente a piedi 4 rampe di scale. Doveva essere un uomo senza angosce e senza fretta.  Ne sciolsi un po’ in acqua distillata: la soluzione era torbida, c’era certamente qualche cosa che non andava. Pesai un grammo di zucchero nel crogiolo di platino per incenerirlo sulla fiamma: si levò nell’aria polluta del laboratorio l’odore domestico ed infantile dello zucchero bruciato, ma subito dopo la fiamma si fece livida e si percepì un odore ben diverso, metallico, agliaceo, inorganico guai se un chimico non avesse naso.” (P. Levi, Arsenico, in Opere complete, vol. I, p. 886).

Cosa sappiamo delle nano-plastiche

19 May, 2025 - 21:48

Luigi Campanella

I prodotti plastici apprezzati per i loro bassi costi e per la loro durevolezza sono divenuti indispensabili nella società moderna. L’uso pervasivo della plastica ha però prodotto una grave crisi ambientale con una previsione di arrivare a 800 milioni di tonnellate consumati nel 2050. La degradazione degli scarti e rifiuti plastici attraverso processi chimici, fisici e biologici genera micro e nano plastiche che minacciano ecosistema e salute dei suoi abitanti. Le microplastiche sono state ritrovate nell’ambiente marino, nelle acque superficiali, perfino in regioni remote, come quelle artiche. Allarmanti recenti studi hanno riportato evidenze di nano-plastiche in tessuti umani, inclusa la placenta il fegato, i reni, il sangue evidenziando i relativi effetti tossici.

I rischi ambientali ed igienico sanitari posti dalle microplastiche sono divenuti un problema di assoluta primaria importanza. Le microplastiche attaccano l’ecosistema marino alterando fonti alimentari e cicli biogeochimici e l’ingestione di microplastiche da parte degli organismi marini porta al loro bioaccumulo.

Da un punto di vista della salute umana le nano-plastiche penetrano nelle cellule attraverso meccanismi come la endocitosi, la fagocitosi, la diffusione passiva inducendo lo stress ossidativo, cioè quello stato patologico derivato da un eccesso di radicali liberi nell’organismo non contrastato dalle difese endogene antiossidanti con conseguenti danni a RNA, DNA, proteine, grassi, da correlare a patologie anche gravi come i tumori, i disordini neurologici, l’invecchiamento precoce.

Ad oggi i meccanismi con cui si passa dallo stress ossidativo a queste patologie non é però noto soprattutto a lunga scadenza ed in condizioni di interazioni multisistemiche. I recenti progressi nell’analisi bibliometrica forniscono preziosi strumenti per sintetizzare i risultati delle ricerche sul tema ed identificare i gap culturali da coprire in certi settori. Mappando sistematicamente i risultati delle ricerche su micro e nano-plastiche si può così collegare quanto manca in termini di conoscenza con quanto invece si conosce, seguendo la progressiva copertura del gap.

Cosa sappiamo sulle nano-plastiche e il loro effetto sull’uomo e sull’ambiente? La recente pubblicazione della serie “Future Brief”, numero 27, promossa dalla DG Ambiente della Commissione europea, prova a fare il punto sullo stato della ricerca e delle conoscenze in materia di nanoparticelle plastiche, quale crescente preoccupazione per l’ambiente e per l’uomo. Per tirare in estrema sintesi le somme, il report Nanoplastics: state of knowledge and environmental and human health impacts risponde alla domanda come segue: conosciamo così poco le nano-plastiche da non poterne prevedere una regolamentazione specifica, ma ne sappiamo abbastanza da poter provare che esistono e che l’uomo le sta ingerendo e inalando a concentrazioni incalcolabili.

E non è una buona notizia.

Riferimenti

https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/a9088790-ace5-11ed-8912-01aa75ed71a1/language-en

La conclusione del documento UE:

Dalla ricerca qui presentata emerge chiaramente che l’intero ciclo di vita della plastica – dalla “culla” alla “tomba” – non è completo quando non possiamo più vedere la plastica: la plastica continua ad avere effetti ambientali ben oltre il momento in cui diventa invisibile. Il mancato controllo di questi inquinanti invisibili, che già permeano l’ambiente terrestre, atmosferico, acquatico e biologico, contribuisce a un pericolo crescente, di cui potremmo comprendere appieno le proporzioni solo quando sarà troppo tardi.

Le guerre sono anche un biocidio

15 May, 2025 - 12:34

Diego Tesauro

In questi tempi in cui i frastuoni di oltre 50 guerre sparse nel pianeta si fanno sentire ed il più forte vuole schiacciare il più debole, a dispetto del diritto internazionale, cade il 50esimo anniversario della fine della guerra del Vietnam con la conquista di Saigon il 30 aprile 1975. Questa guerra è stata la più cruenta, lunga (durò quasi 20 anni) e devastante combattuta dalla fine della seconda guerra mondiale con tre milioni di morti fra militari e civili da parte vietnamita e 60.000 da parte americana. Furono proprio le proporzioni del massacro, la volontà del più forte di prevalere sul più debole che hanno favorito la nascita di movimenti di protesta e pacifisti nel mondo occidentale. Ma ora è giunto il momento dopo 50 anni di chiedersi quale eredità abbia lasciato questa guerra. Tralasciamo la lezione che bisogna trarne dal punto di vista geopolitico e focalizziamoci su quello che è più consono alla nostra formazione, l’impatto sull’ambiente e sulla salute della popolazione L’ambiente è sempre uscito sconvolto dagli eventi bellici ed i teatri dei conflitti mostrano i danni inferti profondi anche a molti anni di distanza; e non ci stiamo riferendo a guerre combattute con armi nucleari, che ovviamente comporterebbero la scomparsa delle maggior parte delle forme di vita sulla Terra. Le Alpi portano a più di un secolo di distanza i segni della grande guerra o basta andare nelle Ardenne, per vedere ancora la devastazione dell’offensiva tedesca che si risolse con la decisiva vittoria degli alleati nella seconda guerra mondiale. E nel Vietnam? Se in questa guerra non sono state utilizzate armi chimiche al fine di uccidere militari e civili direttamente, come i gas nervini, le armi chimiche scelte furono gli erbicidi, oltre ad un numero cospicuo di “agrofarmaci”. Se quindi il danno alla salute umana non era intenzionale, almeno in linea principio, lo era il danno all’ambiente. Lo sforzo dell’esercito americano di denudare circa 2 milioni di ettari di foresta di mangrovia e 200.000 ettari di terreni agricoli era stato progettato per negare ai VietCong e alle truppe nordvietnamite cibo e copertura protettiva (figura 1a). All’epoca gli erbicidi venivano definiti, non con il loro nome chimico, ma con il colore usato per contrassegnare i barili. Una mezza dozzina di formulazioni, furono identificate come Agente blu (per danneggiare le coltivazioni), Agente Rosa, Agente Bianco o come soprattutto Agente Arancio, il più usato defoliante che quindi divenne il più famoso (Figura 1b).

Figura 1 (sopra, a) Una zona irrorata con erbicidi in Vietnam (sotto, b) un barile di colore arancio usato nella guerra

Questo agente era una miscela al 50% di due erbicidi, della famiglia degli erbicidi clorurati, disponibili in commercio, l’acido 2,4-diclorofenossiacetico e l’acido 2,4,5-triclorofenossiacetico (2,4,5-T) (figura 2).

Figura 2 Struttura dell’acido 2,4-diclorofenossiacetico (in alto) e l’acido 2,4,5-triclorofenossiacetico  (2,4,5-T) (in basso)

Questi erbicidi erano presenti sul mercato da diversi decenni e prodotti da varie multinazionali come la Dow Chemical e la Monsanto. In Italia il 2,4,5-T era prodotto dalla tristemente famosa Icmesa di Meda, del gruppo Givaudan controllato da Hoffman La Roche, responsabile del disastro di Seveso. Il 2,4,5-T era stato sviluppato negli anni quaranta, sintetizzato dalla reazione del 2,4,5-triclorofenolo (TCP) e l’acido cloroacetico. Il 2,4,5-triclorofenolo (per la sintesi vedere nota) ad alta temperatura, ma al di sotto degli 800°C, forma 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina (TCDD) secondo la reazione riportata nella nota, per cui l’erbicida è contaminato da questa diossina, che oggi viene chiamata anche diossina di Seveso in quanto fuoriuscita dall’Icmesa nel 1976. Negli anni sessanta si credeva che i defolianti fossero innocui per l’uomo, anche se in realtà le imprese produttrici avevano già prove della sua tossicità per la presenza della diossina, i cui effetti non erano ancora del tutto noti. Alla fine degli anni ’60, esperimenti di laboratorio dimostrarono che il 2,4,5-T poteva causare anomalie e nati morti nei topi, e ci furono segnalazioni di difetti alla nascita nelle aree irrorate del Vietnam. Nel 1971, quattro anni prima della fine della guerra gli Stati Uniti abbandonarono la loro decennale campagna di irrorazione a seguito delle crescenti condanne internazionali e le preoccupazioni per la sicurezza. La concentrazione di diossina, stabilita successivamente all’uso del agente arancio, nei fusti era molto variabile da 6,2 a 14,3 ppm, con una media di 13,25 ppm a seconda delle ditte produttrici. Oggi, c’è un ampio consenso sul fatto che queste concentrazioni di diossina pongono seri rischi per la salute di coloro che sono direttamente esposti, compresi i cittadini e i soldati vietnamiti, nonché i membri delle forze armate degli Stati Uniti e di altri paesi che l’hanno aiutata durante la guerra: Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.

Negli Stati Uniti nel 1992, il Dipartimento degli Affari dei Veterani chiese all’Istituto di Medicina, oggi parte del NASEM, di rivedere la letteratura scientifica e fornire aggiornamenti biennali. L’ultimo di questi rapporti, Veterani e Agente Arancio, è apparso nel 2018 e ha identificato ben 19 tumori con prove “sufficienti” di un’associazione con l’esposizione agli erbicidi. Nel 2011 il Congresso degli Stati Uniti ha introdotto una legge a favore dei veterani americani e dei loro discendenti, colpiti dalla cloracne e da altre patologie. Secondo una sentenza della Corte Suprema di Seul (Corea del Sud) nel 2013 la Monsanto doveva rimborsare le spese per cure mediche a 39 veterani sudcoreani della guerra del Vietnam, avendo ammesso che la causa della cloracne dei militari è strettamente legata al loro contatto diretto con l’agente arancio.

Ma gli studi sulla tossicità della diossina hanno in gran parte lasciato aperta una delle domande più visibili e controverse che circondano l’Agente Arancio: se i composti rappresentano rischi non solo per coloro che sono stati direttamente esposti, ma per i loro figli. La preoccupazione per le generazioni future è stata provocata, in gran parte, dalla capacità di resistenza della TCDD. A differenza dell’erbicida stesso, che si decompone in poche ore o giorni, il TCDD può sopravvivere fino a 3 anni in un terreno esposto alla luce solare. Se lisciviato nei sedimenti di fiumi o stagni, può avere un’emivita di oltre 100 anni, un tempo più che sufficiente per essere raccolto da pesci, anatre e altri animali di cui le persone si nutrono, risalendo la catena alimentare e bioaccumulandosi nei tessuti adiposi a seguito della sua idrofobicità. Inoltre la diossina può essere anche inalata con la polvere contaminata e assorbita attraverso la pelle. Una volta nel corpo umano, la diossina può depositarsi nel seno e in altri tessuti adiposi e avere un’emivita da 7 a 11 anni. Può anche contaminare il latte materno ed essere trasmesso ai bambini che allattano. Dagli anni ’70, numerosi studi sugli animali hanno scoperto che i feti esposti alla diossina possono mostrare una vasta gamma di difetti alla nascita e problemi di sviluppo, suggerendo che un impatto sui feti umani è biologicamente plausibile. Ma documentarlo nel Vietnam si è rivelato difficile in quanto non è stato possibile condurre indagini scientifiche accurate.

Ora la maggior parte dei 101 milioni di abitanti sono nati dopo il 1971 e quindi lo studio potrebbe indirizzarsi verso i figli delle persone contaminate. I dati non sono disponibili per pure ragioni politiche da parte americana, ma anche paradossalmente vietnamita. Nel primo caso perché se si fosse dimostrato ciò che ci aspettava che l’esposizione agli erbicidi fosse collegata a difetti alla nascita – ci si sarebbe potuti aspettare che gli Stati Uniti pagassero un risarcimento ai bambini vietnamiti. In alternativa, se non fosse stato trovato alcun collegamento, ciò avrebbe potuto mettere in imbarazzo il governo vietnamita, che ha a lungo evidenziato i difetti alla nascita come il danno più importante dell’Agente Arancio. Recentemente Science ha fatto il punto della situazione sugli studi sulla propagazione alle future generazioni degli effetti della diossina.

 Un unico studio sul latte materno è in corso ma è improbabile che lo studio fornisca una risposta definitiva alla domanda sui difetti alla nascita, in quanto la coorte esaminata è troppo piccola per indagare sulle anomalie congenite. Da alcuni studi precedenti in particolare, è stato scoperto che un alto livello di diossina nel latte materno – un proxy per l’esposizione fetale – è associato a una crescita fisica più lenta e a un ritardo nello sviluppo neurologico nei loro figli. I ragazzi mostrano difficoltà di apprendimento, ad esempio, mentre le ragazze mostrano disturbo da deficit di attenzione, iperattività e autismo. I documenti “forniscono una forte prova” che vivere vicino a siti contaminati dall’Agente Arancio può provocare un elevato carico corporeo di diossina che è associato a disturbi comportamentali nei bambini. Ora bisognerebbe continuare a seguire i bambini mentre invecchiano. Ciò potrebbe rivelare collegamenti tra l’esposizione alla diossina e i tumori e altre malattie che si manifestano nel tempo durante la vita. Si tratta di stabilire se l’esposizione abbia causato cambiamenti biologici fondamentali nelle persone che possono essere tramandati di generazione in generazione. Gli scienziati e i funzionari vietnamiti sostengono di vedere tali effetti multigenerazionali che provocano difetti alla nascita diverse generazioni dopo l’esposizione. E sebbene gli autori del rapporto NASEM del 2018 abbiano concluso che c’erano “prove inadeguate o insufficienti” degli effetti epigenetici, hanno fortemente incoraggiato ulteriori studi sulla questione. Cristina Giuliani, biologa antropologa dell’Università di Bologna, e colleghi della Hue University of Medicine and Pharmacy e dell’Università della California (UC), Riverside, si sono concentrati su un meccanismo epigenetico basato sulla metilazione del DNA e su come influisce sull’espressione di un particolare gene, il CYP1A1. Ebbene gli scienziati hanno concluso che la prole di genitori vietnamiti esposti all’Agente Arancio condivideva una firma distintiva di metilazione del DNA CYP1A1 che non è stata osservata nei figli di genitori senza esposizione, ciò non dimostra sperimentalmente che l’esposizione alla diossina sia trasmessa ai discendenti. E non affronta la questione se eventuali cambiamenti di questo gene siano dannosi, benefici o neutri. Ottenere risultati più certi su questi problemi, richiederebbe studi epigenetici che confrontino diverse generazioni di popolazioni esposte e non esposte.

Al di là di questi studi, che non chiariscono gli effetti sulle generazioni future, per quanto riguarda gli effetti a lungo termine della diossina, il mancato studio del caso vietnamita potrebbe essere un’occasione persa dalla scienza per saperne di più. Bisogna inoltre tener conto che per ragioni anche anagrafiche la popolazione direttamente esposta sta diminuendo. Dal punto di vista ambientale resta la devastazione di territori dove è presente la diossina; all’epoca, i critici della tattica coniarono un nuovo termine – “ecocidio” – per descrivere la distruzione diffusa.  Nel 1983, 12 anni dopo la fine della campagna di erbicidi, Science riferì che gli scienziati vietnamiti che partecipavano a una conferenza a Ho Chi Minh City (il nuovo nome che ha assunto l’ex-capitale del Sud Vietnam, Saigon) avevano scoperto che molte foreste montane irrorate, che gli abitanti dei villaggi cercavano di convertire all’agricoltura, erano “inadatte alla coltivazione, ed il terreno si era coperto di “un’erba dalle radici profonde”. Un altro studio ha trovato solo 24 specie di uccelli e cinque mammiferi in una striscia di foresta pesantemente irrorata a terra; al contrario, due aree vicine indisturbate che ospitavano 145 e 170 tipi di uccelli e 30 e 55 specie di mammiferi. Anche in questo ambito a più di 50 anni dopo la fine dell’irrorazione, si sa poco del suo impatto ecologico a lungo termine ancora perché il Vietnam ha ora problemi di ambientali più urgenti, come l’inquinamento atmosferico sempre più grave da varie fonti, tra cui la combustione diffusa di rifiuti di plastica. Ai danni della guerra si stanno sommando i danni di uno “sviluppo” caotico, senza regole e senza rispetto. Il futuro per il Vietnam potrebbe essere dal punto di vista ambientale ancora più fosco. Nel paese c’è un’abbondanza di riserve minerarie di terre rare (stime del 2024 dell’USGS seconde solo alla Cina) e il suo sfruttamento, che per adesso non è ancora elevato. Gli Stati Uniti, già dall’era Biden, sono interessati a diversificare l’approvvigionamento per cui si prospetta una collaborazione con il governo vietnamita. Se questo evento è da considerarsi positivo, non lo è certamente per ulteriori studi sugli effetti della diossina nell’agente arancio durante la guerra in quanto è facile immaginare che sarà ancora maggiore interesse da parte dei due governi di stendere un velo di silenzio definitivo sui danni ambientali ed umani.    

NOTA

Il (2,4,5-triclorofenolo) TCP è prodotto a partire da 1,2,4,5-tetraclorobenzene e idrossido di sodio in glicole etilenico e xilene a 170-180 °C. Questa reazione è fortemente esotermica a pressione atmosferica. In questa reazione si genera come sottoprodotto una piccola quantità di 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina (TCDD) a seguito di eliminazione di due anioni cloruro

Per chi vuole approfondire:

Stellman J.M. et. al. The extent and patterns of usage of Agent Orange and other herbicides in Vietnam Nature 2003, 422, 681-689.

Normile D. The fog of war Science 2025, 388, 350-353.

La fumata bianca e la fumata nera.

7 May, 2025 - 10:01

Diego Tesauro

La fumata nera e la fumata bianca (Figura 1) sono due segnali di fumo adoperati dai cardinali riuniti in conclave per comunicare all’esterno l’esito degli scrutini per l’elezione del nuovo papa, servendosi della combustione prodotta per mezzo di una stufa installata nella Cappella Sistina.

Figura 1 Fumata Bianca in alto e nera in basso

Nella millenaria storia del papato questa tradizione è relativamente recente anche rispetto all’istituzione del conclave nel XII secolo. Quando si rese necessaria una forma di comunicazione, fra coloro che erano isolati ed il popolo romano, in attesa della nomina del suo vescovo (all’epoca anche capo di stato), per tutto il XIX secolo, Il fumo che fuoriusciva dal camino della cappella Sistina, stava ad indicare solo la mancata elezione a seguito della combustione delle schede elettorali. Solo dal 1914 la fumata bianca sta indicare l’elezione del pontefice. Ma come vengono generate la fumata bianca o nera?

Il metodo utilizzato nel XX secolo era basato sulla combustione di paglia umida e pece, che talvolta dava luogo a fumate grigie poco chiare. Pertanto a partire dal conclave del 2005 in luogo della combustione delle schede si utilizzano ben precise reazioni che permettono inequivocabilmente di individuare se la fumata è bianca o nera.

Per ottenere la fumata bianca i reagenti sono il clorato di potassio KClO3, lattosio (C₁₂H₂₂O₁₁) e la colofonia. La colofonia è una resina vegetale gialla, solida, trasparente che deve il suo nome alla città greca della Ionia Colofone (Figura 2).

Figura 2 La colofònia*

E’ ottenuta dal residuo della distillazione delle trementine che generano le conifere per proteggersi dagli agenti patogeni. La colofonia è composta essenzialmente da acidi resinici i quali sono costituiti per circa il 90% da acido abietico (C20H30O2) (Figura 3) un diterpenoide, mentre il rimanente 10% è una miscela di acido diidroabietico (C20H32O2), cioè dove uno dei due doppi legami è idrogenato e acido deidroabietico (C20H28O2) dove è presente un terzo doppio legame.

Figura 3 Da sinistra a destra Le Strutture dell’acido abietico, dell’acido diidroabietico e dell’acido deidroabietico

La reazione è una reazione redox. Come si intuisce il clorato è l’agente ossidante che genera l’ossigeno secondo la reazione, ad una temperatura a circa 400 °C:

2 KClO3 → 2 KCl + 3 O2

L’ossigeno ossiderà il lattosio con reazione esotermica e l’acido abietico. La presenza del lattosio è richiesta perché produce nella reazione di ossidazione una quantità considerevole di acqua, mentre l’ossidazione dell’acido abietico genera particelle solide che sospese nell’aria, riflettono la luce e facilitano la condensazione delle particelle di acqua, generando il caratteristico colore bianco del fumo.

Per ottenere la fumata nera, si utilizza una miscela di perclorato di potassio, antracene e zolfo. Il perclorato di potassio KClO4, di cui si è ampiamente discusso in un precedente post, ha lo stesso compito del clorato cioè generare ossigeno. Ma rispetto al clorato è più stabile termicamente e si decompone a temperature più alte (oltre 500 °C), con una cinetica più lenta:

KClO4 → KCl + 2O2

Questo comportamento rende la combustione più controllata.

L’antracene, un idrocarburo policiclico aromatico, e lo zolfo fungono da combustibili. L’antracene, presente nel catrame di carbone, produce una grande quantità di particelle di carbonio incombusto nella forma allotropica di grafite (quella stessa che osserviamo uscire dalle marmitte soprattutto degli autocarri che hanno una combustione inefficiente del gasolio) che danno origine a un fumo denso e nero. Pertanto la reazione produce non solo diossido di carbonio, ma anche grafite secondo la reazione:

C14H10 + O2→ C + CO2 + H2O

Come osservate la reazione non è bilanciata in quanto le proporzioni fra grafite e diossido di carbonio dipendono dalla rapidità della reazione di produzione e dalla disponibilità dell’ossigeno. Infatti se la reazione fosse troppo rapida, rischierebbe di consumare tutto il combustibile ossidandolo completamente a diossido di carbonio cioè la reazione di ossidazione non si fermerebbe ad ossidare il carbonio a grafite, non producendo le particelle nere, ma tutto il carbonio assumerebbe lo stato di ossidazione +4 in luogo dello zero della grafite. Lo zolfo ossidandosi invece forma diossido di zolfo, che contribuisce ad aumentare la densità e l’opacità del fumo.

Nota

L’acido abietico deriva da un diterpene. I diterpeni sono una classe di terpeni composti da quattro unità isopreniche, spesso con formula molecolare C20H32. L’acido abietico deriva per ossidazione all’aria o per azione del citocromo P450 dal abietadiene (appunto un diterpene), che a sua volta è prodotto dal copalil pirofosfato (CPP), a sua volta derivato dal geranilgeranil pirofosfato (GGPP), precursore di molti diterpenoidi.

Figura 4 La biosintesi dell’acido abietico a partire dal geranilgeranil pirofosfato (GGPP) (1) attraverso copalil pirofosfato (CPP) (2) e l’abietadiene (3)

  • NdA. La colofònia è anche nota in commercio col nome di pece greca, resina per violino (violin rosin), resina della gomma (essudato delle incisioni su alberi vivi di Pinus palustris e Pinus caribaea) e tallolio. Come additivo alimentare ha il codice E915.

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