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BLOG: LA CHIMICA E LA SOCIETA'

Syndicate content La Chimica e la Società
Nell’Antropocene, l’epoca geologica attuale fortemente caratterizzata dalle attività dell’uomo, la Chimica ha il compito di custodire il pianeta e aiutare a ridurre le diseguaglianze mediante l’uso delle energie rinnovabili e dell’economia circolare.
Updated: 1 week 3 days ago

Piccola cronaca estiva.

21 August, 2024 - 20:21

Mauro Icardi

L’estate è una stagione che personalmente ho amato molto da giovane. Ma in modo diverso da come la si vive oggi. Oggi questa stagione sembra voler rappresentare il diritto all’eccesso, al divertimento forzato. Io ho vissuto estati più tranquille, fatte di escursioni, di esplorazione delle valli alpine piemontesi. A piedi e con l’amata bicicletta. Questo ha fatto sì che anche oggi prediliga mete più vicine, che cerchi di evitare le località turistiche più affollate e ormai stravolte sia dal punto di vista urbanistico, e che non conservano quasi nulla del loro passato.

L’estate 2024 mi colpisce per due ragioni, entrambe legate al mio essere un tecnico del ciclo idrico, come mi piace definirmi.

La prima riguarda le olimpiadi di Parigi. In particolare la decisione, a mio parere surreale e azzardata, di far disputare la frazione della gara di nuoto del triathlon olimpico nella Senna.

La città conta più di due milioni di abitanti, è storicamente dotata di un sistema fognario e di depurazione delle acque di risulta. Ma è logico e razionale pensare che questo stesso sistema possa andare in sofferenza quando il numero di persone aumenta in ragione del numero di turisti e atleti che soggiornano nella città durante lo svolgimento dei giochi. Problema non nuovo che riguarda ogni tipo di località turistica. Con una prima e fondamentale differenza. Di norma le località balneari hanno risolto già da tempo, oppure stanno risolvendo il problema delle variazioni di carico, sia idraulico che organico che affluisce agli impianti, e che varia notevolmente tra la stagione estiva e quella invernale. Le grandi città sono invece sistemi più complessi anche da questo punto di vista. Mia moglie al ritorno serale dal lavoro mi informava di alcune cose. In particolare dello spostamento delle date per disputare la gara, legate alla situazione di contaminazione microbiologica della Senna. In qualche caso peggiorata dopo le piogge. Non conosco esattamente la situazione del numero e della tipologia degli impianti di depurazione parigini, ma dato che ancora oggi, per ragioni principalmente dovute ai costi e alla conservazione delle strutture si progettano gli sfioratori di troppo pieno, non era difficile immaginare che si sarebbero potute verificare queste criticità. Alla prima precipitazione i by pass fanno quello per cui sono stati progettati, sversano il surplus di progetto di acqua di fogna nel fiume. Ho letto anche che è stata costruita una notevole vasca di raccolta liquami per evitare lo sversamento diretto. In sostanza un’affannosa corsa, probabilmente gestita in maniera affrettata e confusa, per mostrare al mondo che la Senna è tornata balneabile. Non è cosi che si dovrebbe gestire il risanamento ambientale. L’intera operazione è stata contestata dai cittadini di Parigi. Alcuni atleti hanno contratto infezioni da E.Coli. Il risultato di tutta questa operazione è riassunto in questo meme.

Esisteva una soluzione alternativa, ovvero far disputare la gara di triathlon in acque costiere. La Francia dispone di una buona rete ferroviaria. Credo che le sue coste siano balneabili. Invece di imporre la balneazione nella Senna bastava disputare la gara a Cannes per esempio. Questa scelta ha (passatemi il termine) probabilmente sputtanato la depurazione agli occhi dei non addetti. Conosco la fatica che si fa a spiegare la storia, le tecniche di depurazione. A far capire l’importanza del trattamento delle acque, i suoi principi fondamentali, le necessità che si modifichino in funzione dei nuovi inquinanti che immettiamo nell’ambiente. Oltre a tutto questo mi domando, ma queste grandi manifestazioni hanno ancora un senso? Il ritorno economico è quasi sempre negativo, quello ambientale addirittura tragico. Per altro ricordo i timori dei colleghi di Torino prima delle olimpiadi del 2006 proprio per le problematiche gestionali da affrontare nel settore depurazione, e quelle dei colleghi di Milano alle prese con le nuove fontanelle di acqua potabile installate per l’expo. Mi sembra doveroso ricordare i loro sforzi e il loro impegno per la riuscita di tali eventi.

Altra notizia di questa estate che mi ha colpito, è il ripetersi di fenomeni di cui ci eravamo dimenticati. Ovvero la presenza di mucillaggini in Adriatico, morie di pesci nella laguna di Orbetello e sul litorale romano.

Un’estate particolarmente piovosa ha aumentato il dilavamento dei nutrienti provenienti dagli allevamenti. E’ patrimonio comune l’idea che tutti i fiumi finiscono in mare, e con loro tutto quello che viene dilavato dai terreni. Un articolo uscito sul quotidiano “La Nazione” relativo alla moria di pesci ad Orbetello significativamente titola cosi: “Non abbiamo imparato proprio nulla”. Alla buonora, finalmente anche la stampa generalista si rende conto che affrontiamo quelle che ci ostiniamo a chiamare criticità, quando ormai la situazione ci sta praticamente sfuggendo di mano?

L’articolo dà conto delle conosciute criticità, critica il sistema fognario più che quello depurativo, dimenticandosi di dire che (dati ISTAT) il 96,3% dei comuni italiani è servito da un sistema di trattamento delle acque, grazie a 18042 impianti di depurazione dislocati sul territorio nazionale. Conosco le criticità del servizio, ma conosco anche le ritrosie quando si parla di gestione tariffaria del ciclo idrico integrato. Ma questo porterebbe fuori tema, e oltretutto di queste cose ho scritto già molto su questo blog. Qui sta accadendo qualcosa di molto diverso. Le acque costiere sono più calde ma nella percezione comune “faceva così caldo anche negli anni 50”. Quando sento queste affermazioni vorrei rispondere come il professor Keating, magistralmente interpretato da Robin Williams nel film “L’attimo fuggente”, quando si riferiva alle idee di Jonathan Evans Pricher sulla comprensione della poesia. Ma questa volta mi trattengo dal farlo.

Caldo, eccesso di nutrienti, ed ecco che la moria diventa inevitabile. Non è una novità, non è affatto necessario far finta di essere stupefatti, preoccupati e magari indignati. L’effetto della temperatura sull’ossigeno disciolto è conosciuto dai tempi della legge di Henry. Le fioriture algali le abbiamo già viste e conosciute. Su ogni testo di chimica, di scienze naturali, di biologia, di ecologia questi effetti sono spiegati. Come sempre ci manca la volontà di agire, di capire. E di accettare di limitare il nostro saccheggio planetario, i nostri desideri futili, di evitare di usare l’abusato e consolatorio termine “sono tutte sciocchezze”. E anche in questo caso ho voluto usare un eufemismo.

La conclusione la traggo direttamente dall’editoriale de “La Nazione” del 7 agosto scorso a firma di Alessandro Antico:

“ Vi sono state ere in cui il clima è uscito dai canoni solitamente conosciuti: è tutto documentato. Ma non è il caso nostro, nel senso che non è il caso dell’oggi. Non lo è perché dei ghiacciai che si stanno sciogliendo lo andiamo scrivendo in tutto il mondo ormai da decenni. Non lo è perché le morìe di pesci nella laguna di Orbetello non sono un tormentone dell’estate del 2024, visto che già nel 2015 toccammo con mano il disastro. Però si continua a non fare abbastanza per inquinare meno, per rinunciare a un po’ dei nostri motori, per non far decollare le “energie alternative.“

Ho chiuso decine di articoli con esortazioni di questo tipo. Magari questa avrà più effetto. Me lo auguro di tutto cuore, perché la nostra immobilità, la nostra cecità planetaria di fronte a questi fenomeni non ha alcuna ragione di essere.

Dalla pietra di Bologna ai moderni display.

17 August, 2024 - 09:12

Claudio Della Volpe

In un precedente post abbiamo accennato alle proprietà ottiche del solfato di bario, un composto presente in natura come minerale, la barite in varie regioni italiane. Qui da me in Trentino ce n’è un’intera montagna visibile da Trento, (il Monte Calisio o Argentario, da cui si estraeva argento, galena di piombo e barite) dalla quale già i Romani estraevano l’argento e che conteneva i minerali d’argento in un contesto di bario e piombo; vicino Bologna la barite (o baritina) era presente invece in quantità in certe zone del circondario (l’attuale Monte Paderno, una collina nel sud della città dove si trova oggi un parco pubblico, indicato dal punto rosso, raggiungibile dalla vecchia porta di San Mamolo, partendo da via D’Azeglio).

Ne abbiamo parlato ricordandone la storia e ripubblicando un articolo del compianto Marco Taddia; in letteratura esistono parecchi articoli che parlano della pietra o fosforo di Bologna, scoperta da un calzolaio bolognese, Vincenzo Casciarolo, persona non istruita ma curiosa e fatta conoscere in tutta Europa da vari intellettuali bolognesi e di altri paesi.

La pietra di Bologna aveva un segreto che non fu subito manifesto; essa conteneva una piccola percentuale del tutto naturale di impurezze di rame che funzionavano da drogante e consentivano alla fosforescenza di manifestarsi potentemente; ed era inibita viceversa dal ferro (assente nei campioni bolognesi, una pura coincidenza!); dunque dato che il prodotto deve essere calcinato trasformandolo in solfuro la cosa non è ininfluente.

Riscaldando la pietra in un contenitore fatto con leghe di rame (ottone o bronzo) il risultante solfuro di bario era maggiormente soggetto al fenomeno; viceversa se si usava un contenitore di ferro, che inibisce il fenomeno; (il ferro in concentrazioni estremamente basse (dell’ordine dello 0.005%) “quencha” il materiale fosforescente, tanto da essere questo un metodo di rivelazione del ferro a concentrazioni di picogrammi/litro, probabilmente a causa del forte assorbimento UV del Fe+3, come anche della sua capacità di legarsi nel caso di fosforescenti organici). La tradizione inoltre mescolava il materiale con diverso materiale organico, ma bastava del carbone ed una combustione lenta, che producesse molto monossido di carbonio per avere l’effetto riducente necessario alla bisogna, insomma una vera ricetta, la cui ratio, il cui segreto fu compreso solo molto dopo.

Come il solfuro di zinco (usato più comunemente oggi) il solfuro di bario è un semiconduttore, cioè un materiale con una banda di valenza piena di elettroni e una banda di conduzione vuota.

È noto che il gap energetico tra le due bande è, nello ZnS puro, di circa 350 kJ/mol (corrispondenti a 3,6 eV) mentre è di 3.3eV nel solfuro di Bario. Dato l’ampio gap energetico, in condizioni di temperatura normale è presente solo una concentrazione molto piccola di portatori di carica. Il drogaggio con rame, argento o cerio o manganese a seconda del solfuro introduce livelli di energia elettronica intermedi all’interno della banda proibita. In questa situazione, l’illuminazione con luce UV o anche con luce ambiente eccita gli elettroni, portandoli dalla banda di valenza alla banda di conduzione. Il successivo meccanismo di ricombinazione elettrone-buco, attraverso i livelli energetici intermedi introdotti con il drogaggio, porta all’emissione di fosforescenza per tempi più o meno lunghi, ma comunque ben riscontrabili

Zinc Sulphide Phosphorescence

Il seguente grafico dà un’idea dell’effetto del dopante:

Grafico da Solid State Comm. 68, 9, 821-824 (1988)

Per esempio il campione S0 non contiene dopante mentre il campione SC15 contiene il 3.3% di rame e SC13 lo 0.6%.

Un caso fortunato la pietra di Bologna per vari motivi; la concentrazione delle impurezze di rame e di ferro era specifica dei campioni bolognesi, in particolare il rame non era né troppo né troppo poco in quanto anche l’eccesso di rame può quenchare il materiale e questo spiegherebbe anche i fallimenti su materiali una volta usati con successo; l’assenza di ferro non era tipica della barite, barite da altre fonti non mostrava questo  comportamento speciale; il filone  peraltro sembra si sia poi esaurito portando alla scomparsa della conoscenza di questo segreto chimico in città fino a tempi relativamente recenti, come racconta l’articolo di Principe sotto citato e giustificando anche la descrizione che dava Taddia nel suo pezzo.

Il materiale fosforescente più comune è in realtà il solfuro di zinco, comunemente usato in innumerevoli applicazioni legate sia all’illuminazione che ai display monocolori e all’elettronica; i display verdi dei primi computer erano tutti basati sull’uso del solfuro di zinco per esempio, come anche i comuni monitor degli oscilloscopi o dei radar (la cui scia è dovuta proprio alla durata della fosforescenza).

Anche nel caso dello zinco occorre un dopante, che può essere cerio o argento. Un elenco molto accurato delle applicazioni del solfuro di zinco e dei colori ottenibili è riportato alla voce https://en.wikipedia.org/wiki/Phosphor; notate che con il termine “fosforo” si esprime spesso genericamente un materiale fosforescente e non necessariamente l’elemento fosforo. Ultima nota importante, un materiale fluorescente o fosforescente è un materiale in cui la produzione di luce è stimolata da luce a lunghezza d’onda minore con una differenza solo nel tempo di stimolazione (più lenta la riemissione di luce di lunghezza d’onda maggiore nel caso dei materiali fosforescenti) ; nel caso dei display si sfrutta l’effetto non della luce ma del fascio di elettroni del monitor, il quale eccita gli elettroni di valenza in modo diretto, e il nome del processo dovrebbe essere più precisamente catodoluminescenza.

ZnS è un materiale con molte strutture possibili e mostra anche il fenomeno di elettroluminescenza, ossia emissione di luce dopo stimolazione con un campo elettrico; in genere i solfuri metallici puri o misti mostrano di divenire luminescenti in vario modo (ossia se stimolati in differenti modalità, per esempio attraverso un campo elettrico) per questo motivo continuano ad essere al centro dello sviluppo tecnologico nel settore dei display.

Riferimenti o testi consultati

Lawrence M. Principe  Ambix, 2016, 1–27  Chymical Exotica in the Seventeenth Century, or, How to Make the Bologna Stone

https://www.chemistryworld.com/opinion/solving-the-riddle-of-the-glowing-stones/1017596.article

https://en.wikipedia.org/wiki/Phosphor

https://www.treccani.it/enciclopedia/luminescenza_(Enciclopedia-Italiana)/

https://www.spectroscopyonline.com/view/fluorescence-quenching-effects-of-fe3-ions-on-carbon-dots

Materials 2010, 3, 2834-2883; doi:10.3390/ma3042834

Dispute scientifiche e cronache popolari legate al Fosforo di Bologna

14 August, 2024 - 11:32

Marco Taddia

già pubblicato in La Chimica e l’industria 2003, settembre p.84-85  

Marco Taddia, scomparso prematuramente nel giorno di Natale dello scorso anno, oltre a essersi occupato di analisi elettrochimica e spettroscopica di materiali industriali e di semiconduttori, da sempre si è interessato di Storia della Chimica e, in particolare, dello sviluppo della chimica a Bologna. In quest’ambito ha scritto più di 120 articoli, anche di taglio divulgativo; qui ci piace ricordare un suo contributo sulla pietra bolognese intitolato “Dispute scientifiche e cronache popolari legate al Fosforo di Bologna”, un titolo molto intrigante che ben rispecchia le capacità comunicative di Marco.

L’interesse scientifico verso il fenomeno della fosforescenza risale ai primi del Seicento quando fu trovata (1602-1604) sul Monte Paderno, nei pressi di Bologna, una varietà di baritina poi denominata “Pietra di Bologna”. Lo scopritore, a detta di molti tal Vincenzo Casciarolo, cuocendola su carbone, ottenne un materiale (BaS) che esposto alla luce del sole e poi riposto al buio, diventava un “fosforo”, ossia brillava come un carbone acceso senza scaldarsi. Il “Fosforo di Bologna” alimentò  numerose dispute scientifiche e, nel contempo, diede spunto a scherzi gustosi e divertimenti popolari.

Per circa tre secoli, dai primi del Seicento all’inizio del Novecento, la città di Bologna deve il suo posto nella storia della chimica soprattutto ad una pietra, che da essa prese il nome, utilizzata per ricavarne fosfori, ossia materiali capaci di dare fosforescenza. Eppure, specialmente dal 12 dicembre 1711, quando fu fondato l’Istituto delle Scienze ad opera di Luigi Ferdinando Marsigli, al tempo del governo napoleonico che lo soppresse, non mancano motivi d’interesse verso la chimica bolognese. Basti ricordare, ad esempio, l’allestimento di una “camera” della chimica nell’Istituto suddetto, i contributi di Laurenti, Menghini, Valsalva, Vandelli e, soprattutto, quello di Jacopo Bartolomeo Beccari (1682-1766) medico, anatomico e chimico. Beccari, professore di fisica dal 4 dicembre 1711, passò alla cattedra di chimica, istituita per la facoltà medica con decreto del 16 novembre 1737, dando avvio, primo in Italia, all’insegnamento universitario della chimica, corredato di parte sperimentale. Evidentemente, il pur celebre contributo di Beccari alla scoperta del glutine e altri suoi studi in vari campi, incluso quello dei fosfori, con l’ausilio di dispositivi sperimentali originali, non ebbero risonanza europea pari a quella della Pietra di Bologna. La Pietra colpì innanzitutto la curiosità e l’immaginario popolare, attirò  verso la città l’interesse dei viaggiatori, ispir  testi letterari, suggerì teorie più o meno fantasiose e alimentò numerose dispute scientifiche. La data della scoperta delle singolari proprietà della Pietra di Bologna non è nota con esattezza. Tuttavia, secondo gli storici, si colloca fra il 1602 e il 1604. Essa viene generalmente attribuita a Vincenzo Casciarolo (o Casciorolo), un calzolaio bolognese che, secondo Camillo Galvani (1780), “si dilettava di travagliare nelle cose chimiche” e, passeggiando presso Paderno “per divertirsi da qualche sua naturale malinconia”, vide scintillare una pietra, la raccolse, la portò a casa, la fece cuocere e scoprì, forse casualmente, che mettendola al buio dopo averla esposta al sole, riluceva.

Composizione

La pietra, cui furono attribuiti vari nomi (pietra fosforica bolognese, pietra di Bologna, pietra luciferina, pietra di luna, spongia lucis, lapis illuminabilis, lapis lucifer, phosphorus ecc.) è una varietà di baritina (solfato di bario anidro), raggiata e nodulare, che una volta macinata, impastata con bianco d’uovo o altri leganti e calcinata su carbone, si trasforma in solfuro di bario. La sovrastante figura, riprodotta da un testo di Luigi Bombicci (Corso di Mineralogia, G. Monti, Bologna, 1862), un autore che amava disegnare dal vero, ne fornisce un esempio che trova riscontro nei pregevoli esemplari conservati presso il museo a lui intitolato.

Preparazione e proprietà

La prima citazione delle proprietà della pietra di Bologna è dovuta a Giulio Cesare La Galla (1612), mentre la prima descrizione dettagliata della preparazione di materiale fosforescente a partire da essa è di Pietro Poterio (Pharmacopea Spagyryca, Iacobi Montis, Bologna, 1622). Secondo Poterio, colui che per primo rese luminosa la pietra nell’intento di ricavarne oro, fu un noto alchimista di Bologna, Scipio Bagatello. Il nome di Casciarolo non compare nel lavoro di Poterio. L’attribuzione della scoperta al “chimico” Casciarolo è di Majolino Bisaccione (1582-1663) e Ovidio Montalbani (1602-1671), in due lettere pubblicate nel 1634. Quest’ultimo, addirittura, propose di chiamare la pietra “lapis casciarolanus”. Il riconoscimento pieno a Casciarolo venne da Fortunio Liceti (o Licetus) (1577-1657), nell’opera Litheosforus sive de Lapide Bononiensis, pubblicata a Udine nel 1640. Secondo Liceti, fu appunto Casciarolo, uomo di umili condizioni, che trovò la pietra, ne scoprì le proprietà e la mostrò a Bagatelli. Questi ne parlò a Magini, professore di matematica a Bologna, il quale ne mandò campioni a vari scienziati, tra cui Galileo Galilei, e ad alcuni sovrani europei. Tutto ciò rese rapidamente famosa la pietra, indusse a riprodurre il procedimento di preparazione dei fosfori ed ad interpretarne il comportamento. Nacquero le ipotesi più disparate. Per un certo periodo, da parte di alcuni (Niccol Cabeo, Athanasius Kircher), si pensò che la pietra si comportasse con la luce così come un magnete si comporta con il ferro. Anche Galileo intervenne nella disputa, seppure di sfuggita, con una lettera a Leopoldo di Toscana, scritta per confutare alcune osservazioni di Liceti sulle opinioni dello stesso Galileo in merito al “candor lunare”. La scoperta di un residuo luminoso nella distillazione delle urine calcinato su carbone (il fosforo elementare), avvenuta ad opera di Brand nel 1669, ravvivò ulteriormente la discussione sulle proprietà dei fosfori naturali ed artificiali e vi partecipò anche Robert Boyle. Nel Settecento, il sistema newtoniano influenzò anche le teorie sulla pietra. I bolognesi contribuirono alla discussione ed un gruppo di membri dell’Accademia (Beccari, Galeazzi e Laurenti) fece numerosi esperimenti in proposito. I Commentari, una sorta di diario scientifico del segretario Francesco Maria Zanotti (De Bononiensis scientiarum et Artium Instituto atque Accademiae. Commentarii) registrarono i risultati, compresi quelli dello stesso Zanotti, riportando altresì anche due studi di Beccari sui fosfori, di carattere più generale. Marsigli dedicò all’argomento un’apposita dissertazione e l’Accademia delle Scienze di Parigi non fu da meno, come risulta dai Mémoires di Homberg e Du Fay. Fra i trattati di chimica, il celebre Cours de Chimie di N. Lémery (1645-1715) è forse quello che si occupa più diffusamente della Pietra di Bologna, anche dal punto di vista sperimentale e con il supporto di una bella tavola esplicativa. Quest’opera ebbe numerose riedizioni e traduzioni. L’ultima edizione, pubblicata in italiano nel 1719 da Gabriele Hertz, racconta la storia della Pietra, spiega come trovarla, ne cita le proprietà depilatorie, descrive minuziosamente il procedimento per farne fosforo e propone una teoria per spiegarne la luminosità. Certo, Lémery non è indulgente con i predecessori; egli afferma che “Poterius, Montalbanus, Maginus, Licetus, Menzelus, ed alcuni altri hanno scritto di questa pietra, ed hanno date le maniere di calcinarla; ma le loro descrizioni non servono a nulla, perché, seguitandole, non s’ottiene alcun fine”. Il secondo tomo del Dictionnaire de Chimie di Macquer, pubblicato a Parigi da Lacombe nel 1769, dedica alcune pagine a quello che è ritenuto il fosforo pietroso più celebre, la Pierre de Boulogne, interpretandone il comportamento con il ricorso al flogisto. Ciò rifletteva lo sforzo del chimico tedesco S. Maargraf, convinto sostenitore della teoria di Stahl. Superata questa teoria, la Pierre de Boulogne, continuò a trovar posto anche nei testi didattici francesi. Un esempio è il Cours de physique experimentale et de chimie; a l’usage des Ecole centrales, spécialment de l’Ecole centrale de la Côte d’Or”, pubblicato a Digione e a Parigi all’ inizio del 1801, che riporta il procedimento per ottenere i piccoli gateaux fosforescenti.

Letteratura e mistero

Gli studi sulla Pietra di Bologna, come documentato dalla letteratura chimica, si protrassero fino al 1940 circa, ma il procedimento e le condizioni che assicurano la piena riuscita della preparazione presentano tuttora qualche incognita.

D’altronde, meraviglia e mistero accompagnano da sempre la strana luce della pietra. Anche Goethe ne rimase influenzato e, quando passò da Bologna, se ne procurò alcuni esemplari, citando poi la Pietra anche nel Werther. Nel clima di curiosità e di diletto che a livello popolare incoraggiava il lavoro degli studiosi sui “mirabilia minerali e naturali”, ben si comprendono le burle che la pietra ispirava e i piccoli commerci di questa autentica rarità. Si può allora concludere che, passeggiando sui calanchi di Paderno per scacciare la “naturale malinconia”, il calzolaio Vincenzo Casciarolo raggiunse l’intento anche a vantaggio di molti altri tra i quali, forse, potremmo includere anche noi.

NdC Bologna ha dedicato a Vincenzo Casciarolo una strada.

Un nuovo Farmacista

11 August, 2024 - 08:52

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Il valore anche sociale delle farmacie è dei farmacisti non può essere messo in discussione: per decenni difficili hanno rappresentato l’ancora di salvezza contro malori, epidemie, infezioni. Oggi il loro ruolo è stato integrato sul piano di struttura medica con analisi e visite accanto alle quali però sia le farmacie che i farmacisti si trovano a divenire espressione di un mercato nel quale il valore scientifico strettamente medico è abbastanza ridotto: si pensi agli integratori, all’omeopatia, ad alcuni prodotti da banco, agli estratti vegetali ad alcuni cosmetici. Viene spontaneo chiedersi se il futuro delle farmacie sarà legato più al mercato o più alla scienza. È vero anche che i progressi scientifici a volte vengono poi confutati dalla stessa scienza.

Un recente caso ha riguardato due edulcoranti di successo, il sucralosio, 600 volte più dolce del saccarosio e l’eritritolo. Del primo mentre la dose max ammessa in Europa è 15 mg/kg di peso corporeo, negli USA è di soli 5 mg/kg con una prudenza giustificata dalle sue interferenze con il sistema immunitario.

Il secondo è un polialcool con dati di consumo negli USA assolutamente preoccupanti, fino a 30g al giorno. Si tratta di un composto a zero calorie, quindi molto apprezzato senza tenere conto del fatto che recenti studi su di esso ne hanno evidenziato gli effetti cardiovascolari: in particolare un articolo comparso su Nature Medicine ha denunciato la possibilità da parte di questo composto di produrre infarti, ictus e morte aggiungendo che studi preliminari precedenti avevano denunciato questo rischio, sì da giustificare prima di un uso diffuso un approfondimento scientifico.

Le farmacie forse potrebbero giocare un ruolo scientifico importante anche in un altro settore, quello delle malattie rare. Si tratta di patologie che a volte in passato sono anche state tenute nascoste per paura dello stigma sociale e delle superstizioni che le accompagnavano: si pensi alle malattie mentali e allo spettro autistico. Oggi quei pregiudizi sono in larga parte caduti e proprio grazie agli stessi malati il livello di coscienza e conoscenza è aumentato tanto da creare percorsi scientifici finalizzati alla ricerca di farmaci capaci di contrastare queste patologie.

Sono nate comunità di parenti che avendo in casa malati di queste patologie si sono riunite per potere acquisire la forza necessaria a pretendere di interloquire col potere politico e con le strutture scientifiche. Credo che le Farmacie potrebbero costituire un prezioso supporto a queste aggregazioni. Ma c’è dell’altro: le malattie rare, proprio in quanto rare non rappresentano un grande business per l’industria farmaceutica. Questi ridotti ricavi potrebbero sia pure in minima parte essere compensati da una ridistribuzione di mercato per quanto riguarda i ricavi dalle vendite di questi specialissimi farmaci con maggiore attenzione alla produzione rispetto alla vendita

Innovazione, ma responsabile

8 August, 2024 - 07:31

Vincenzo Balzani, Professore emerito UniBo

(già pubblicato su Bo7 il 28 luglio us)

Abbiamo faticosamente attraversato un periodo di recessione. Economisti e politici ci dicono che per uscirne dobbiamo consumare di più perché, se crescono i consumi, cresceranno anche la produzione, l’occupazione e il PIL. Le parole d’ordine sono sviluppo, crescita e innovazione. L’innovazione, parola oggi così frequentemente usata (20.800.000 voci su Google), è considerata il motore dello sviluppo e della crescita. All’innovazione si chiede, anzitutto, di fare aumentare i consumi, cioè di creare prodotti nuovi, sempre più attraenti e desiderabili per il consumatore.

Non importa se si tratta di prodotti inutili, perché con la pubblicità si possono sempre imporre sul mercato. Meglio se vengono programmati per rompersi dopo breve tempo, così che si dovranno gettare e non avremo scrupoli nel comprare il modello più recente. Non dobbiamo neppure preoccuparci troppo di produrre rifiuti, perché troveremo sempre un modo per farli scomparire dalla nostra vista: nascondendoli sottoterra, bruciandoli perché se ne vadano, invisibili, in quella immensa discarica comune che è l’atmosfera, oppure gettandoli nei mari che ricoprono tre quarti della superficie del pianeta. Nel caso dei rifiuti elettronici, poi, potremo continuare a “regalarli” ai paesi sottosviluppati dell’Asia o dell’Africa, dove ci saranno sempre persone povere che tenteranno di ricavarne qualcosa, con gravi rischi per la loro salute. Una simile ricetta, però, non solo è profondamente sbagliata eticamente, ma è ecologicamente insostenibile. Un’innovazione volta soltanto ad aumentare i consumi ci porterebbe al disastro collettivo nel giro di qualche decina d’anni o forse prima. Pertanto, parlare genericamente di innovazione senza qualificarla non ha senso.

Ovviamente, bisognerebbe smettere di innovare nel campo degli armamenti; ne abbiamo già troppi, sofisticati e micidiali. Più in generale, bisogna guardarsi bene da ogni innovazione basata su maggior consumo di risorse, maggior produzione di rifiuti e aumento delle disuguaglianze. L’unica innovazione che dobbiamo perseguire è quella che ha per obiettivo la sostenibilità nel suo duplice aspetto: sostenibilità ecologica e sostenibilità sociale. Infatti, come scrive papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, “ Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio- ambientale.

Un’innovazione responsabile ha proprio il compito di contribuire a risolvere queste crisi.

Le prime cose da innovare sono istruzione e cultura: bisogna far sapere a tutti i cittadini, in particolare ai giovani, qual è la situazione reale delle risorse, dei rifiuti e delle disuguaglianze nel mondo in cui viviamo.

https://www.cartoonstock.com/directory/g/green_technology.asp

Le imprese devono considerare che l’innovazione responsabile, cioè l’innovazione nella direzione della sostenibilità ecologica e sociale, sarà sempre più premiata, perché si va diffondendo fra la gente la consapevolezza che bisogna porre rimedio alla crisi energetica e climatica e, più in generale, ai danni causati dall’economia dell’usa e getta. Già oggi molti acquirenti, e il loro numero aumenterà costantemente, sono disposti a pagare di più se hanno la certezza che quello che comprano è stato prodotto seguendo i criteri dell’innovazione responsabile.

La scoperta dell’ossigeno 250 anni fa

4 August, 2024 - 16:47

Diego Tesauro

A metà del XVIII secolo il concetto di elemento chimico era ancora in evoluzione e per la maggior parte era assegnato ad una decina di metalli, noti fin dalle epoche più antiche. Non era chiaro se l’aria fosse un elemento, come era considerato fin dall’epoca di Anassimene ed Empedocle oppure no. Nessuno sapeva cosa fosse, e i ricercatori continuavano a scoprire che poteva essere convertita in una tale varietà di forme che si parlava abitualmente di “arie” diverse.

Il metodo principale per alterare la natura dell’aria consisteva nel riscaldare o bruciare alcuni composti. Nella seconda metà del 1700 si assiste ad un’esplosione di interesse verso i gas. Lo sviluppo delle macchine a vapore stava trasformando la civiltà con la prima rivoluzione industriale per cui gli scienziati, particolarmente ovviamente quelli britannici, erano affascinati dalla combustione e dal ruolo che giocava l’aria in questi processi.

Nel 1754, Joseph Black identificò quella che chiamò “aria fissa” (ora nota come biossido di carbonio) perché poteva essere restituita, o fissata, nel tipo di solidi da cui era stata prodotta. Nel 1772, Daniel Rutherford scoprì che quando bruciava del materiale in una campana di vetro, veniva assorbita l’aria “fissata” e rimaneva un gas che soprannominò “aria nociva” perché asfissiava i topi che vi si trovavano nella campana (ora noto come azoto).

In questo scenario si collocano gli esperimenti condotti da un farmacista di Uppsala, Carl Wilhelm Scheele.  In diversi esperimenti riscaldando nitrato di potassio e di magnesio (KNO3, Mg(NO3)2) il carbonato di argento (Ag2CO3) l’ossido di mercurio (HgO) e una miscela di acido arsenico (H3AsO4 ) e biossido di manganese (MnO2) ottenne un gas  (aria vetriolica) che descrisse come incolore, inodore e insapore, riferendo che alimentava la combustione meglio dell’aria. Erano le prime evidenze dell’esistenza dell’ossigeno ma pubblicò i risultati dei suoi esperimenti solo nel 1777. Alla figura di questo scienziato è stato dedicato un post alcuni fa (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2014/12/01/carl-wilhelm-scheele-il-primo-che-isolo-lossigeno/).

Il primo agosto del 1774 venne condotto l’esperimento a cui si fa risalire la scoperta dell’ossigeno da parte di Joseph Priestley.  Quel giorno di 250 anni fa Priestley riuscì a isolare l’ossigeno che chiamò “aria deflogisticata ” in quanto, sulla base della teoria del flogisto (https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_del_flogisto ) in voga dal XVII secolo, alimentava la combustione perché non conteneva flogisto e quindi poteva assorbirne la quantità massima durante la combustione. Mediante l’uso di una lente ustoria, l’ossido di mercurio (HgO), racchiuso in un cilindro rovesciato su mercurio liquido, venne calcinato liberando un gas (Figura 1).

Reproduction of Priestley’s oxygen apparatus. Whole object on grey background.

Figura 1 Ricostruzione dell’esperimento di Priestley con lo specchio ustorio ed un crogiuolo con il mercurio liquido e l’ossido di mercurio sotto una campana.

Questo gas risultò scarsamente solubile in acqua (oggi sappiamo che la solubilità dell’ossigeno disciolto alla pressione atmosferica in acqua è a 25 ˚C di 8,3 mg/L) ed alimentava la combustione della fiamma di una candela. Lo stesso chimico scrisse «I have discovered an air five or six times as good as common air» ed annotò anche che la calcinazione di un metallo consente al metallo stesso di sottrarre questa aria dall’atmosfera.

L’anno successivo Priestley pubblicò i risultati dell’esperimento nel libro Experiments and Observations on Different Kinds of Air rivendicandone la scoperta. (Figura 2)

Figura 2 Riproduzione del libro di Joseph Priestley. Experiments and Observations on Different Kinds of Air, 1774-1786.

Un paio di anni dopo Antoine-Laurent Lavoisier riconobbe l’ossigeno quale elemento distinto, ne accertò il ruolo fondamentale nella combustione e gli diede il nome attuale (dal greco oxýs, acido, e génos, generazione) ritenendo erroneamente che fosse un costituente essenziale di tutti gli acidi.

Vernici termoriflettenti

1 August, 2024 - 10:43

Claudio Della Volpe

3 anni fa, in pieno covid, pubblicammo un post su una scoperta potenzialmente molto importante nel campo del condizionamento degli edifici e in genere del raffreddamento passivo, senza spesa energetica (a parte la produzione del materiale, la stesura e la manutenzione).

Si trattava di una vernice basata sull’uso di un pigmento comune, il solfato di bario, che prometteva una riflettanza superiore al 98%, dunque un assorbimento residuo del 2% , di un ordine di grandezza inferiore a quello dei comuni pigmenti a base di biossido di titanio, che corrispondono ai bianchi più diffusi, con la capacità di raffreddare una superficie in pieno sole.

La novità era costituita dalla distribuzione dimensionale dei componenti e dalle percentuali del pigmento usato, che sfioravano il 60%.

La scoperta era stata fatta da un gruppo di ricerca della Purdue University, diretta da Xiulin Ruan.  

Xiulin Ruan, professore di ingegneria meccanica alla Purdue University e co-autore dello studio sulla ‘pittura più bianca del mondo’, il record è stato confermato https://www.guinnessworldrecords.com/world-records/659962-whitest-paint

Dopo quasi tre anni però il prodotto non si trova ancora in commercio; come mai?

Cosa è successo nel frattempo?

Anzitutto spieghiamo come funziona la scoperta del 2021, frutto di una costante attività nel settore.

Le vernici impiegate attualmente in edilizia assorbono tra il 10 e il 20 per cento della radiazione solare, di conseguenza non possono impedire completamente il riscaldamento di un edificio. La vernice sviluppata da Ruan assorbe invece meno del 2 per cento della luce solare e ha la capacità di riflettere anche buona parte della luce nel vicino infrarosso. Ciò rende possibile il raffreddamento radiativo, ….. È una soluzione di regolazione termica passiva degli edifici indagata da tempo soprattutto in ingegneria e architettura, perché potrebbe rendere possibili sistemi per regolare la temperatura molto efficienti dal punto di vista energetico.

https://www.ilpost.it/2023/07/18/vernice-ultrabianca/

Quella di riflettere la luce solare per ridurre l’insolazione è una strategia storica delle popolazioni che abitano le zone più assolate. Chi ha frequentato il Mezzogiorno d’Italia ricorda sicuramente i tipici panorami di case bianche.

La “città bianca” di Ostuni, in Puglia.

Ma tutto sommato il completo bianco estivo, fa parte anche della tradizione pittorica pensate ai vestiti del “beduino”; il bianco aiuta a respingere la luce e fa stare più confortevolmente quando la temperatura ambiente aumenta; gli scambi radiativi, anche se non li vediamo, li ”sentiamo”.

In realtà se esaminiamo con attenzione la tradizione culturale dei paesi del sud del mondo, spesso localizzati nelle zone caldo-umide o perfino desertiche troviamo delle applicazioni incredibilmente efficaci di condizionamento passivo*.

Se analizziamo più in dettaglio la questione troviamo che c’è una precisa finestra di emissione che consente il rilascio di energia non con l’ambiente immediatamente circostante ma con il cielo, lo spazio profondo, che rappresenta la “superficie” di scambio più fredda che possiamo desiderare. Si tratta della cosiddetta finestra atmosferica o finestra del cielo.

Questa finestra occupa l’intervallo fra 8 e 13 micron (e in parte anche oltre i 16).

Per ottenere un raffreddamento diurno sufficiente, il materiale deve avere due proprietà fondamentali:

assorbanza estremamente bassa nello spettro solare (0.3-2.5 micron) freccia rossa (dipende da un basso coefficiente di estinzione),

e contemporaneamente

emissività elevata nella regione della finestra atmosferica (8-13micron) freccia blù (dipende da alto indice di rifrazione).

Questa combinazione non è affatto banale.

Il successo nell’uso del solfato di bario nasce proprio da questa particolare combinazione; esso infatti combina una altissima riflettanza nello spettro solare (0.28-2.5 micron) e contemporaneamente l’alta emittanza nella finestra del cielo (8-13 micron) osservata in numerosi esperimenti.

Pigmenti efficienti per il raffreddamento radiativo richiedono un alto indice di rifrazione n (per alzare l’emittanza nella finestra del cielo) e un basso coefficiente di estinzione κ nello spettro solare (per abbassarne l’assorbimento).

Ma come è la situazione sperimentale dei materiali?

Queste due grandezze sono entrambe legate al band-gap elettronico, ma in modo diverso.

La relazione fra n indice di rifrazione e band-gap

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0921452621004208

Si vede che al di là dei tentativi di ricostruzione teorica la relazione è inversa tra bandgap e indice di rifrazione n (si veda il grafico qui sopra); mentre si sa che è diretta fra coefficiente di estinzione e band-gap (si legga dopo).

Dunque occorre cercare, come spesso accade, un buon compromesso.

Il band-gap, ossia la differenza di energia fra banda di valenza e banda di conduzione, impone la lunghezza d’onda minima (o energia massima) per la quale un materiale è trasparente. Man mano che la lunghezza d’onda della luce diminuisce (e l’energia aumenta) avvicinandosi al band gap, l’indice di rifrazione e il coefficiente di assorbimento aumenteranno. Quando si confrontano materiali diversi, quelli con un band gap maggiore avranno un indice di rifrazione più piccolo per la stessa lunghezza d’onda della luce.

La banda di valenza e di conduzione di un semiconduttore o di un isolante sono separate dall’energia band gap EG che impone la minima lunghezza d’onda λG per cui il materiale è trasparente. h è la costante di Planck e c è la velocità della luce. Per λ<λG, la luce verrà assorbita e gli elettroni verranno promossi nella banda di conduzione.

Quando invece la luce con lunghezza d’onda maggiore di λG si propaga attraverso un materiale (supponendo che non siamo a una lunghezza d’onda di risonanza), provoca oscillazioni degli elettroni sugli atomi alla stessa frequenza ma con un ritardo di fase (o un ritardo temporale se si desidera); questo dà l’indice di rifrazione, che descrive la velocità effettiva della luce in un mezzo (v=c/n)  ed inoltre, l’ ampiezza dell’onda può decadere in funzione della distanza (come nell’illustrazione sopra), e questo dà assorbimento.

In letteratura troviamo che il band gap del BaSO4 è sufficientemente alto da eliminare l’assorbimento solare, ma è anche abbastanza moderato da consentire un indice di rifrazione ragionevolmente alto con un forte scattering.

Quando la lunghezza d’onda si avvicina alla lunghezza d’onda del band-gap, λG, l’indice di rifrazione aumenta (o se volete la luce si muove più lentamente) e aumenta il coefficiente di assorbimento (ossia il materiale diventa meno trasparente).

Qui occorre tener conto anche dei fononi, ossia i quanti di energia legati ai modi di vibrazione del reticolo; questi hanno energie molto più basse della luce incidente, mase gli elettroni vengono colpiti contemporaneamente e l’energia della luce è quasi sufficiente per eccitare l’elettrone attraverso il band-gap, la vibrazione del reticolo fornirà quella spinta extra che mancava. Questo è il motivo per cui un materiale inizierà a sembrare meno trasparente per le lunghezze d’onda che si avvicinano al band-gap.

Ma c’è ancora qualche altra cosa. Diversi semiconduttori e isolanti hanno bande proibite diverse e più piccole di λG.

Questo ulteriore fenomeno si chiama Rest-strhalen o raggi “residui” (restroom è il bagno, per capirci). (Il termine Rest-strhalen è stato spesso trasformato dai lettori anglosassoni in Restrahlen, un po’ come chiamare Pie, il pigreco, cosa che fa arrabbiare qualunque persona di lingua derivata dal greco o dal latino; al prossimo americano che chiama pie il pigreco fate una pernacchia).

L’effetto Reststrahlen è causato dal forte accoppiamento tra le vibrazioni del reticolo e la radiazione IR, mentre l’assorbimento dei fononi è il risultato dell’assorbimento dei fotoni IR da parte dei modi vibrazionali del reticolo del materiale. L’effetto Reststrahlen può avere un impatto significativo sulle proprietà termiche di un materiale. Poiché assorbe o riflette preferenzialmente le radiazioni IR a determinate lunghezze d’onda, influisce sulla capacità del materiale di emettere e assorbire calore. Ciò può comportare cambiamenti nella conduttività termica, nell’emissività e nel comportamento termico complessivo del materiale.

E proprio il BaSO4 (oltre alle proprietà già descritte) ha una struttura cristallina complessa e un’adeguata forza di legame che producono un elevato numero di modi fononici ottici del centro di zona attivi all’infrarosso nelle bande di Reststrahlen, e questi modi mostrano un forte scattering a quattro fononi, un meccanismo finora sconosciuto che contribuisce all’elevata emissività della finestra del cielo.

Fin qui una spiegazione, come vedete lunga e complessa del perché il solfato di Bario è così performante in questa specifica applicazione.

Ma allora perché non è stato usato nel concreto finora?

In realtà il solfato di bario si usa già ma a basse dosi nel cosiddetto “bianco fisso” ossia quando serve un bianco particolarmente bianco; ma sempre in compagnia con altri bianchi tradizionali, come l’ossido di titanio.

Per usarlo da solo in maggiore quantità occorre superare alcune prove pratiche: resistenza all’abrasione, alle intemperie, peso della vernice, perché serve uno strato di vernice parecchio più spesso e dunque più pesante e costoso del normale; per risolvere tutti questi problemi pratici il brevetto della Purdue University è ancora in attesa.

Nel frattempo il gruppo del prof. Ruan non è rimasto con le mani n mano

Nei tre anni dopo la prima presentazione, il gruppo di lavoro di Ruan ha lavorato non solo per rendere più efficiente la vernice, ma anche per svilupparne una versione più leggera e in grado di aderire ai metalli. L’ambizione è di poterla utilizzare per dipingere aeroplani, treni, automobili e altri veicoli compresi quelli spaziali. Questa ultima versione, e quella originale, non sono comunque ancora in commercio perché deve essere verificata la loro capacità di non sporcarsi troppo e di resistere al tempo.

Purdue University researchers have created a new formula for the world’s whitest paint, making it thinner and lighter. The previous iteration (left) required a layer 0.4 millimeters thick to achieve sub-ambient radiant cooling. The new formulation can achieve similar cooling with a layer just 0.15 millimeters thick. This is thin and light enough for its radiant cooling effects to be applied to vehicles like cars, trains and airplanes. (Purdue University photo/Andrea Felicelli)

Confronto di spessore fra i due prodotti messi a punto da Ruan.

Nel perseguire questo scopo il gruppo ha sviluppato un ulteriore materiale adeguato alla bisogna ma basato su una sostanza del tutto diversa: hanno iniziato a lavorare sulla composizione chimica della vernice utilizzando il nitruro di boro esagonale (vedi immagine sotto), una sostanza spesso utilizzata nei lubrificanti, o per conferire una tonalità di bianco accecante (Cell Reports V.3, ISSUE 10, 101058, October 19, 2022).

Il nitruro di boro esagonale diffonde la luce solare fino al 97,9% dei raggi solari e viene applicato con uno spessore di soli 150 micron. La nuova vernice è anche altamente porosa, con vuoti d’aria che hanno contribuito a ridurne il peso di circa l’80% rispetto alla versione precedente, secondo i ricercatori. Hexagonal form (h-BN) hexagonal analogous to graphite

Ed infine seguendo l’esempio di Ruan un altro gruppo di ricerca (Environ. Sci.: Adv., 2023, 2, 1662 ) ha scoperto che anche il comune carbonato di calcio presenta proprietà che lo fanno considerare un buon candidato come vernice termoriflettente.

Queste nuove tecnologie promettono di ridurre gli enormi investimenti necessari alla transizione ecologica; pensate ai costi del 110% per esempio; usando queste vernici sarebbe possibile non dico eliminare ma ridurre le potenze per la gestione del raffrescamento estivo; dunque si l’argomento è difficile e un po’ complesso, ma se queste tecnologie riusciranno ad arrivare sul mercato la transizione ecologica sarà più vicina con costi molto minori.

Siti e lavori consultati

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S2542529322000566

https://www.researchgate.net/publication/374956147_Subambient_Passive_Radiative_Cooling_Effects_of_Barium_Sulfate_and_Calcium_Carbonate_Paints_under_Malaysia’s_Tropical_Climate  Environ. Sci.: Adv., 2023, 2, 1662

https://makerfairerome.eu/it/la-vernice-ultra-bianca-che-rimpiazza-laria-condizionata/

https://www.ilpost.it/2023/07/18/vernice-ultrabianca/

https://www.degruyter.com/document/doi/10.1515/nanoph-2023-0642/html

https://www.purdue.edu/newsroom/releases/2022/Q4/worlds-whitest-paint-now-thinner-than-ever,-ideal-for-vehicles.html

https://www.quora.com/Whats-the-relation-between-bandgap-the-extinction-coefficient-and-the-index-of-refraction

https://www.physicsforums.com/threads/what-is-restrahlen-effect-and-restrahlen-band.623513/

To Help Cool a Hot Planet, the Whitest of White Coats

https://www.cell.com/cell-reports-physical-science/pdfExtended/S2666-3864(22)00352-6

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*Quando l’Iran non era uno stato “canaglia” per l’occidente, capitava di leggere sulle riviste “buone” dell’epoca, come Scientific American la storia di queste applicazioni eccezionali che contemporaneamente condizionavano gli edifici e producevano perfino i gelati (dopo tutto il gelato è una invenzione araba, non occidentale; la parola italiana sorbetto viene dall’arabo o persiano sherbeth o sharbat, شربت, la neve dolce). L’uso efficiente della convezione per condizionare gli edifici meriterebbe molta attenzione da parte nostra, maestri dello spreco di fossili.

Sotto:Una torre del vento a Yazd in Iran, in una zona desertica con una storia di oltre tremila anni; Yazd è la più secca fra le principali città iraniane, con una media annuale delle precipitazioni di 60 mm ed è anche la più calda fra le città a nord del Golfo Persico, con temperature estive che superano frequentemente e abbondantemente i 40 °C senza umidità. E’ ricordata come Jasdi nel Milione di Marco Polo, città di grandi commerci.

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Acqua potabile: controllata ma snobbata.

29 July, 2024 - 16:18

Mauro Icardi

L’acqua potabile che esce dai rubinetti delle case in Italia è conforme in quasi il 100% dei casi, secondo il primo rapporto del neonato Centro nazionale per la sicurezza delle acque (CeNSiA) dell’Istituto superiore di sanità (Iss). Dopo aver visionato 2,5 milioni di analisi, il Centro Nazionale ha presentato i suoi dati.

Il rapporto, realizzato sulla base dei dati prodotti dalle Regioni italiane insieme al Sistema Nazionale per la Protezione Ambientale e coordinato dal Ministero della salute e dall’Istituto Superiore di Sanità, ha esaminato i risultati  di analisi chimiche, chimico-fisiche e microbiologiche condotte in 18 Regioni e Province Autonome, corrispondenti a oltre il 90% della popolazione italiana, tra il 2020 e il 2022.

La percentuale media nazionale di conformità nei tre gli anni risulta del 99,08 (con un margine d’errore dello 1,60%) per i parametri sanitari microbiologici e chimici del gruppo A e B e del 98,41 (con un margine d’errore dello 1,70%) per i parametri indicatori, relativi al gruppo C, non direttamente correlati alla salute.

Dal punto di vista territoriale tutte le Regioni hanno mostrato percentuali di conformità medie molto alte, superiori al 95%. Le oscillazioni del tasso di conformità sono minimali dal punto di vista della prevenzione sanitaria, che in ogni caso è stata adeguatamente assicurata.

I dati registrano  come Regione migliore, sia per i parametri sanitari chimici e microbiologici che per i parametri indicatori, l’Emilia-Romagna, seguita da Veneto e Piemonte, mentre i tassi di conformità relativamente minori per i parametri sanitari sono registrati nelle Province Autonome di Trento e Bolzano, e, per i parametri indicatori, in Umbria e nella Provincia di Trento.

Il dettaglio sul controllo dei parametri relativamente più rilevanti per le non conformità hanno rilevato tracce episodiche  di contaminazioni microbiologiche (Enterococchi, Escherichia coli) e indicatori di contaminazioni ambientali (coliformi), mentre in alcune limitate aree territoriali si rilevano ancora non conformità per elementi naturali come fluoro e arsenico, associate a gestioni idriche non efficienti perché tutt’ora gestite in economia da piccoli comuni che non posseggono risorse adeguate, e personale correttamente formato e addestrato.

 “Dai dati che abbiamo raccolto emerge che l’acqua potabile è sicura e controllata capillarmente nel tempo in tutto il Paese, conforme quasi nel 100% dei casi ai parametri di legge e con una gestione sicura delle non conformità” afferma Rocco Bellantone, presidente dell’Iss. “È importante che si ribadisca questo concetto, visto che secondo l’Istat quasi un terzo degli italiani non si fida dell’acqua dei propri rubinetti”. L’Italia, inoltre, ha avuto un ruolo importante nel chiedere in sede europea di costruire una normativa che sia ancora più stringente sulla qualità e la sicurezza dell’acqua potabile, come sottolinea il direttore generale dell’Iss Andrea Piccioli. “Nel settore delle acque destinate al consumo umano – specifica Piccioli – l’Italia rappresenta un modello di prevenzione e risposta”.

La pubblicazione del rapporto è il primo passo verso la costruzione di una ‘anagrafe dell’acqua’, con l’obiettivo di mettere a disposizione del pubblico tutti i dati sulle caratteristiche dell’acqua potabile nella propria zona. Verrà creata presso l’iss  l’Anagrafe Territoriale dinamica delle Acque potabili (AnTeA) per garantire un’informazione completa e aggiornata ai cittadini che potranno conoscere l’origine e la qualità della propria acqua di rubinetto, a partire dalle risorse idriche prelevate dagli ambienti naturali fino al loro rubinetto e evidenziando tutte le misure di protezione e controllo applicate.

Figura 1Campagna del gruppo CAP Milano per incentivare il consumo di acqua potabile.

In occasione della pubblicazione del rapporto, l’Iss mette a disposizione un video e un sito dedicato.

I dati raccolti si riferiscono come detto al periodo 2020-2022. Ovvero il periodo antecedente l’entrata in vigore della nuova normativa che sostituisce il Dlgs 31 che ha introdotto anche il controllo degli inquinanti emergenti, in particolare i PFAS. Di questa problematica su questo blog si è scritto molto. E’ stato anche il periodo della pandemia. Le aziende del ciclo idrico si sono trovate a dover gestire anche questa emergenza.

Fatte queste giuste e doverose premesse credo che questi dati vadano letti. Mostrano che, contrariamente a quanto pensano molte persone, i controlli sulle acque vengono fatti regolarmente. Per garantire qualità e sicurezza dell’acqua potabile serve tutto questo, servono investimenti, programmazione, etica. Sono stato in laboratorio trent’anni esatti, mi sono speso molto per il ciclo idrico. I luoghi comuni che sento sul controllo delle acque e sul lavoro dei colleghi davvero per me sono irricevibili. E riporto ancora una volta quanto detto dal Professor Roberto Canziani del politecnico di Milano. “Acqua pubblica non significa acqua gratis, altrimenti dovremmo uscire di casa ogni giorno con il secchio e recarci alla più vicina falda”.

Considerazione che per altro riguarda l’approccio a quasi tutti i beni comuni. L’acqua può facilmente essere preda di speculatori, basti pensare al business delle autobotti nella Sicilia che si sta desertificando. Mentre dove il problema siccità non è percepito (ma non risolto), l’acqua si spreca.

Sono riflessioni amare, ma comuni ad ogni problema ambientale. E prima di ogni altro atteggiamento serve conoscenza. E impegno personale da cittadini.

“Sapere poco è pericoloso. Sapere molto non lo è” 

Gabriella Greison

Per approfondimenti, questo il link dell’iss :

https://www.iss.it/acqua-il-viaggio-dell-acqua

 Questo il link sulla qualità e sicurezza delle acque:

https://www.iss.it/centro-nazionale-sicurezza-delle-acque-censia

L’Italia che vorrebbero.

26 July, 2024 - 10:03

Luigi Campanella, già Presidente SCI

Ho avuto modo di ri-vedere lo Special del TG1 dedicato a CHE ITALIA VORRESTI durante il quale sono stati intervistati a partire da questa domanda 11 imprenditori italiani fra i più noti (Illy, Tronchetti Provera, Doris Cucinelli, Menarini, Della Valle ed altri) (18 gennaio 2024).

Intervengo nel blog perché fra i tanti temi affrontati c’è stato anche quello del rapporto del sistema industriale con quello della Formazione ed in particolare con l’Università. Sostanzialmente i nostri imprenditori hanno un’opinione positiva sul nostro sistema educativo e considerano i nostri docenti e ricercatori tra i primi al mondo.

Le lamentele riguardano il basso numero di laureati che trova un ulteriore riscontro nel numero, il più alto di Europa, di giovani che non studiano e non lavorano ed anche nella esistenza di un sistema Educazione-Industria affidato ad interventi sporadici e singoli piuttosto che, come sarebbe necessario, ad un’organizzazione ufficiale e sistematica.

Contro questa concorre anche un atteggiamento in genere competitivo e da solisti delle imprese italiane: non si fa sistema e questo pregiudica la possibilità di modifiche di scala dell’impresa che, attraverso l’ampliamento, potrebbero significare preziosi risparmi gestionali.

Circa l’innovazione di processo e di prodotto la nostra industria è di certo fra le più virtuose, ma manca di capacità nell’attività di diffusione e pubblicità dei prodotti di tale innovazione. La creatività e la qualità sembrano le caratteristiche positive più evidenti e ricercate, ma la ricaduta positiva è più affidata alle richieste che il nostro sistema produttivo riceve che alla pubblicità dei nostri prodotti da parte di chi li produce.

Un limite può essere rappresentato dalle risorse a disposizione condizionate dai pessimi dati del rapporto debito/Pil e da quelli ugualmente negativi del rapporto deficit/PIL

Su questi valori negativi pesano anche sistematicamente l’elevato costo dell’energia e della mano d’opera e la mancanza di infrastrutture e contingentemente il rapporto con le economie di USA, Germania, Russia e Cina per i riflessi di mercato e per le disponibilità di materie prime. I settori in migliore salute sono proprio quelli  nei quali la ricerca contribuisce maggiormente e cioè alimentazione, aerospazio, farmaceutica,  manifatturiero oltre a turismo e BB.CC. Sono in fondo i settori nei quali il carattere di italianità, come mix di qualità, cultura, gusto, eleganza hanno maggiore possibilità di esprimersi. Anche la sostenibilità è stata spesso citata dagli imprenditori, ma ciò che mi ha colpito è stato che accanto alla proiezione economica, ambientale e sociale è emersa anche quella morale e psicologica: fare lavorare in un ambiente adeguatamente attrezzato rispetto al supporto al buon umore ed all’ottimismo dei lavoratori si trasforma anche in un maggiore sostenibilità economica.

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